CulturaLetteratura

I Classificato – “Per fortuna lo sono” di Corinna Trippini

 

di Corinna Trippini

 

Ho scavato secoli, intercalati nell’argilla e nella roccia.
Ho aperto gallerie, limato passaggi, con la terra grossolana e umida, tenace nelle unghie.
Ho incontrato sorgenti sotterranee, a insozzarmi le ginocchia e infezioni remote disponibili a riattivarsi in me, cavernoso viscere del gastrointestinale, ingenuo e sgualcito.
Una ghianda amara e lucida stava piccola sotto la lingua. Rigirarla con la punta del mio muscolo tra la base e le gengive, mi risolveva l’ansia del buio e mi affidava a lei.
Avevamo un dialogo ripetitivo.
La sua prepotenza e prevaricazione era stata la causa del mio scavare ed ancora restava lei violenta e invincibile, l’elemento primordiale della mia rabbia e frustrazione.
Scavavo. Le unghie si piegavano spezzate, quando un bozzo di roccia inaspettato emergeva dal fondo a offendermi il passaggio. Limitavo allora l’estensione della pietra, insistendo sui fianchi. Avevo il desiderio indicibile di non poter più continuare. Di rimanere lì, molte lunghezze sotto terra, a ripassare la mitologia delle morti premature con eroismo idiota ed aspettare l’esaurirsi generoso dei tessuti. Desideravo la necrosi quando una roccia grande emergeva. Eppure sempre un poco di terra libera lasciava agevole il passaggio alle mie spalle e così scavavo, con una ghianda nera sotto la lingua, la mia passione.
Ero stato, un tempo, di quei giovani dinamici, con gli ideali in tasca.
Pranzavo puntuale, pensavo bene, agivo di regola.
Alcuni giorni più spietati mi avevano dato vertigine: qualcuno aveva perso un padre, altri si erano persi dietro a se stessi. Li avevo considerati un normale accidente, un assestamento inevitabile per mantenere l’ingranaggio.
Nessuno mi avrebbe aiutato, ma nessuno mi avrebbe recato male, perché di male non ne avevo mai compiuto. Pensavo così e le università erano piene di bocche e capelli come i miei.
Avevamo la stessa pelle, lo stesso giornale in tasca e se i binari erano diversi, nella condivisione saremmo cresciuti, perché credevamo anche a quello, alla condivisione, all’essere reciproci.
La vertigine ha iniziato a stabilizzarsi su frequenza radio: annunciavano quel giorno i primi licenziamenti. Aggiungevano che però si sarebbe stati meglio, che si poteva ancora spendere soldi, che tanto sarebbe durato qualche mese.
Quando gli annunci per radio continuarono, le televisioni proiettavano isole caraibiche.
Si presentavano tagli ai comuni, tagli alle comunità montane, tagli ai beni culturali, tagli alle scuole. Organizzammo comitati, che furono però occasione per i più furbi di propaganda facile, così facile, che delle volte ci dava vergogna.
Una volta a casa, tornavamo a pensare agli assestamenti naturali del sottosuolo, alla faglia di Sant’Andrea, alla deriva della California.
La mia ghianda cresceva sotto foglie grandi, si nutriva delle notizie radio, delle paure nelle strade, della propaganda di un regime autoreferenziale.
La volgarità era il suo nutriente elettivo e di volgarità, a quei tempi cani, ce n’era anche nelle sporte del pane.
Camminavamo frastornati, più consapevoli, dolorosi forse, e potevamo essere tristemente soddisfatti della nostra delusione. Noi ce l’avremmo fatta, a preservare la perla, non come i padri.
Loro si erano dispersi per incontinenza economica, noi ci saremmo preservati, con la cultura e l’orgoglio, i piedi fatti bene per stare diritti.
Così, tra spallate politiche e gossip economici, cercavo la concentrazione.
Cercavo l’intuizione, tra il meschino quotidiano di un vicino scortese, d’un professore ignorante, d’una pioggia furibonda tra i raggi della bicicletta ed il sellino passo.
Mi chiedevo il perché delle mie mani giovani e quando la vertigine tornò, non era il mio vestibolo. La crisi era aperta.
L’Italia declassata, non l’avevano più voluta. I bronzi di Riace ai tedeschi bastavano in fotografia. Al glorioso tempo dei Comuni, si opponevano strategie economiche spietate e l’Italia coi suoi sorrisi ampi e le mani indaffarate non incantava più i serpenti a sonagli dei mercati di New York. Cosa voleva dire? Partire. Subito. Prima che il termine “italiano” fosse marchiato dall’ignominia di nuovo, dopo che tanti decenni d’abluzioni l’avevano mondato dalla miseria linguistica.
Italiano, come rumeno, marocchino, albanese, ugandese, portoricano. Italiano, pizza, sole, mandolino, italiano tutto fare, italiano gesticolare. Italiano ovunque, italiano, italiano.
Tanti miei compagni erano partiti all’estero per il dottorato.
Avrei fatto come loro.
Mi promettevano che la meritocrazia non era una parola gonfia di metano, che si lavorava seri, ti sentivi uomo, potevi permetterti una casa, un bilocale forse modesto, ma in centro, a Bruxelles. “Vedrai”. “L’Italia ti manca, eh, ma poi quando parti, non torni più”.
“Si, non sono come noi, sorridono meno, ma qui la ricerca non si fa solo sulla carta”.
Queste ripetizioni banali mi preoccupavano, doveva esserci dell’altro nel vivere all’estero, ma non mi potevo permettere il lusso dell’indagine.
Mandai la modulistica per l’applicazione al dottorato e non mi guardai più le mani.
Il perché l’avevano trovato gli altri al posto mio e non potevo ringraziarli.
L’Italia è stata la casa, la domenica, le galline nell’infanzia.
Io ero il latino nelle scuole, i mezzi busti per le strade, gli acquedotti romanici a pezzi tra i boschi, quando passavi col regionale diretto a Milano.
Ero il braccio di mio nonno quando slama il persico e uova sbattute con farina, anice ed olio.
Ero le luci dei teatri e le colonne, i palazzi fascisti di Varese, i cipressi ed i maiali sgozzati.
Ero una borghesia nuova e spudorata, i vestiti Benetton, i muri di Monterosso andati a pezzi.
Avrei voluto spaccare i volti bianchi di cartapesta che in metro mi trapassavano, per ritrovarci il mio sangue. Il sangue mio e la mia storia, il sangue mio e la casa.
Quella casa, svuotata di quadri e tappeti da avide carogne, che del mio paese avevano fatto un rogo di risate e sbudellamenti.
A noi, che abbiamo creduto ai nostri maestri, non era rimasta che la solitudine. Così, ho iniziato a scavare.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *