Scienza

Hardware genetici: l’epoca dei Data Center e la possibile rivoluzione bioinformatica

Disperso nel cuore della Lapponia svedese, a pochi chilometri dalla città di Luleå, immerso in una fitta vegetazione di abeti e betulle, si trova un capannone nero gigantesco la cui struttura esterna potrebbe far pensare ad un’area 51 stile vecchio continente.

I pochi che sono riusciti ad entrare hanno potuto testimoniare la totale assenza di omini verdi o relitti spaziali; si sono però trovati in un’ambientazione futuristica che ricorda quella di film alla Terry Gilliam: una stanza immensa quanto un campo da calcio, divisa in lunghi corridoi bianchi da voluminosi blocchi neri illuminati da led blu. Queste strutture, insieme ai loro sistemi di raffreddamento, sono gli hardware di Facebook: unità di memoria massiccia che permettono a milioni di utenti, sparsi per il mondo, di connettersi con la piattaforma dal pollice in alto.

Impianti così vengono edificati in posti spesso sconosciuti, su tutto il territorio planetario e il loro nome è quello di Data Center. Sono i veri e propri cervelli di compagnie come Google, YouTube, Facebook e Amazon, il loro compito infatti è quello di raccogliere i dati che provengono da questi motori di ricerca, smistarli e renderli disponibili ai vari utenti sparsi per il mondo.

La produzione di dati, tuttavia, avviene in maniera continua nella nostra società e i Data Center presto potrebbero non essere più sufficienti per rispondere alla crescente domanda di spazio di archiviazione. Considerando possibile il verificarsi di una situazione di sovraccarico dei dati, non deve stupire che siano da tempo promosse ricerche su materiali capaci di sostituire i chip in silicio e gli hard disk magnetici, le principali strutture utilizzate dalle grandi aziende informatiche per conservare le informazioni. Sono stati indagati tanti nuovi composti, mai nessuno però avrebbe pensato che la ricerca nel settore degli hard disk sarebbe stata rivoluzionata dall’utilizzo di molecole biologiche come il DNA.

Hard disk magnetico

Così, quando alcuni bioinformatici dell‘EBI (European Bioinformatic Institute), capeggiati dal Dottor Nick Goldman e indipendentemente altri ricercatori dell’Università di Harvard, presieduti dal professor George Church, hanno proposto e verificato la possibilità di utilizzare il DNA come “chip” dove inserire le informazioni, scrivendo in linguaggio nucleotidico i sonetti di Shakespeare e il discorso “I Have a Dream” di Marin Luther King, si sono subito meritati l’attenzione di tutto il settore della ricerca di materiali per l’immagazzinamento dati e in particolare di molte grandi aziende (Microsoft, IBM e Intel) che hanno deciso di investire in questa brillante intuizione.

L’idea è geniale: utilizzare la molecola in cui è scritta la storia e la vita di tutti gli organismi sulla Terra, come mezzo per archiviare la gigantesca mole di informazioni che oggi si trova in tutti i Data Center del pianeta. La struttura del DNA, data la sua straordinaria versatilità, si presta favorevolmente per tale scopo poiché i nucleotidi (“i mattoni” che lo compongono) possono essere aggiunti in ordini specifici dai biologi molecolari, mentre grazie anche a software bioinformatici si possono tradurre le informazioni scritte in linguaggio binario in linguaggio nucleotidico. Il vantaggio più importante che offre questo approccio è la creazione di piccolissimi e leggerissimi spazi di archiviazione che occupano meno del volume di una cellula, questo li renderebbe ideali per sostituire il silicio o gli hard disk magnetici all’interno dei Data Center.


Cellule osservate al microscopio elettronico. Il DNA contenuto al loro interno potrebbe trasformarle nei chip del futuro

Secondo David Markowitz, neuroscienziato computazionale presso l‘IARPA (Intelligence Advanced Projects Activity) di Washington DC, basterebbe un solo kg di DNA per immagazzinare tutti i dati presenti in ogni Data Center della Terra. (Extance Andy, 2016) Prima di abbandonare per sempre il silicio per riscrivere tutto in linguaggio nucleotidico dobbiamo considerare che ci sono ancora molti limiti nell’utilizzo di questa metodica: primo tra tutti il tasso di errore che si può verificare nella copiatura del DNA, poi la lentezza del processo di codifica dell’informazione desiderata da codice binario a linguaggio nucleotidico (rispetto alla elevata velocità dei chip al silicio) e ultimo, non meno importante, il costo estremamente elevato che una procedura del genere richiede, cifre che arrivano a toccare i 10.000 dollari solo per sintetizzare sotto forma di DNA una quantità di informazioni pari a circa 2,5 megabyte di memoria.

Quindi sembra che passerà ancora del tempo prima che grandi Data Center come quelli di Luleå possano essere sostituiti con laboratori in cui contenere cellule (o altri vettori) piene di dati; forse il lavoro congiunto di Data Analyst e bioinformatici potrà portare a memorie portatili, come quelle dei nostri smartphone, fatte con chip di DNA. L’unica evidenza è che lo spazio di archiviazione che offre questa molecola è davvero straordinario e, se migliorate le metodiche e abbassati i costi, tante potrebbero essere le prospettive offerte da una così semplice e geniale intuizione.

 

Fonti:

 

Extance Andy. “How Could Store All the World’s data” Nature, 31 Agosto 2016, corretto il 2 Settembre 2016.

 

Barbera Diego “Siamo Stati a Vedere Dove Facebook Conserva i suoi Dati: al Fresco, ai Confini del Circolo Polare Artico” 30 giugno 2017.

 

Goldman Nick, Bertone Paul, Chen Siyuan, Dessimoz Christophe, LeProust Emily M.,Sipos Botond, Birney Ewan. “Towards Practical, High-Capacity, Low-Maintenance Information Storage in Synthesized DNA” Nature, 7 febbraio 2013

 

Church George M, Gao Yuan, Kosuri Sriram, “Next-Generation Digital Information Storage in DNA” Science, 28 Settembre 2012

 

Robert F. Service “DNA could store all of the world’s data in one room” Science, 2 Marzo 2017

 

Immagini prese da Pexels.

 

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