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The good heart – Carissimi nemici

È ora di svegliarsi!”

Jacque, ti prego”

Oggi è un grande giorno. Oggi ti insegnerò a fare il caffè.”

Fare il caffè?”

Sì.”

“Non lo dico per vantarmi, ma penso che preparare il caffè sia una delle pochissime cose che sono già in grado di fare.”

Con la partecipazione di Brian Cox e Paul Dano, il regista Dagur Kári, attraverso questo film presentato al Toronto Film Festival nel 2009, ci racconta il cinismo da una parte e la speranza dall’altra, l’imprevedibilità del destino, Dagur Kàri ci racconta la vita.

Lucas, un giovane vagabondo che ha avuto a che fare con la tragedia di chi tenta la morte tagliandosi le vene su di un giaciglio di cartone sotto un ponte, incontra Jacque, proprietario di un bar chiamato “Casa delle Ostriche”. I due si conoscono nella stanza di un ospedale, luogo di morte per alcuni e rinascita per altri e in questo posto infatti nascerà un’amicizia, forse la più importante della loro vita: burrascosa, colpevole e sincera, ma una vera amicizia.

Jacque decide di prendere Lucas sotto la sua ala e farlo lavorare nel proprio bar, decide di insegnargli i segreti di una vita giunta alla fine per colpa di problemi cardiaci e di una ira incontrollabile. Così il giovane senzatetto entra in questo vecchio locale, un mondo non contaminato dalla modernità fuori dalle proprie mura. Entra nel classico bar americano, posto abituale e in un certo senso luogo di culto per alcuni uomini. Le donne non sono “ammesse”, l’intimità maschile dei frequentatori non va svelata e ognuno parla con il suo compagno di bancone, gli racconta i propri segreti facendo finta di ascoltarsi e comprendersi soltanto per poter raccontare a loro volta i fatti propri, senza che a nessuno importi minimamente. C’è una sincerità rituale che tutti rispettano ma che nessuno mette in mostra e il tema è l’attesa, poiché pur non essendo ammesso il genere femminile, l’arrivo di April (Isild Le Besco) spezza quei ritmi che fino ad allora fungevano da fondamenta di quel modo di vivere. Loro attendono danaro, salute, riecheggiando tempi passati per un nuovo futuro; altri aspettano persino l’amore, molti aspettano ciò che non possono comprendere.

Alla “Casa delle Ostriche” si presenta abitualmente uno dei clienti più misteriosi. Nessuno lo conosce, nemmeno Jacque. Prende soltanto un espresso che beve in tre sorsi e lascia sempre la stessa mancia. Sembra che stia vivendo questo nettare degli dei che molti amano e odiano, dolce o amaro, al mattino sì e alla sera no, come amore materializzato. Tre sorsi è tutto ciò che ci vuole e il primo è bollente, un po’ violento, carico di sapore e incertezza come nell’infanzia delle prime emozioni e sentimenti che ci accompagneranno per il resto della vita. Il secondo sorso è quello che ormai pensiamo di sapere e cosa aspettarci, pensiamo di gestirlo perché l’aroma lo conosciamo e crediamo che il mondo sia nostro. Al terzo i giochi sono pressoché fatti, attendiamo la fine, sperando che l’amaro del caffè sia abbastanza bilanciato con la dolcezza dello zucchero.

Dall’inizio alla fine il regista continua a giocare con l’attesa e il cambiamento che potrebbe giungere dopo di essa. Svelando lentamente le caratteristiche e le storie dei clienti (carissimi nemici), e mostra che la speranza è l’ultima a morire ma non sempre la prima ad arrivare

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