Il cinema e l’attesa

Cos’è il cinema se non un viaggio? Cosa rappresenta una pellicola cinematografica, se non il pretesto per andare lontano, prender le distanze dalla routine, osservando vite altrui ed essendo trasportati in situazioni che altrimenti – nel bene o nel male – mai vivremmo? Cinema come viaggio, dunque, e molto probabilmente come tale avrebbero potuto definirlo anche coloro che si approcciarono al cinema come spettatori, prima che Griffith lo facesse come regista, inventando e perfezionando un montaggio analitico che avrebbe permesso la nascita di un cinema narrativo sempre più dinamico e agevole, come lo diventò il viaggiare con la rivoluzione dei trasporti. E, come ogni viaggio che si rispetti, anche il cinema è fatto, tra le altre cose, di attese. Che sia l’attesa in sala prima che il film inizi o l’attesa che una pellicola di particolare interesse esca nelle sale, oppure l’attesa come semplice espediente narrativo atto a far crescere la suspense, questa, in varie misure e significati, nell’universo cinematografico vi rientra sempre. E così, nel corso del tempo, alcuni custodi della settima arte, la quale mai disdegna d’esplorarsi e di far riferimento a se stessa, hanno ritenuto opportuno focalizzarsi tanto su quest’elemento da portarlo a riempire totalmente il soggetto di certe loro opere. Registi che ricercano situazioni statiche, le quali reclamano ogni espediente possibile per potersi legittimare agli occhi dello spettatore. Spettatore che cessa così di essere un viaggiatore all’interno di un contesto dinamico ed assume i tratti dell’ostaggio in attesa d’essere liberato da situazioni tanto scomode quanto statiche. Nel 1991 Gabriele Salvatores decise di modellare su queste caratteristiche Mediterraneo, “confinando” su di una incontaminata ed ellenica isola non solo i sette soldati della compagnia del Sergente Maggiore Lorusso, ma anche tutti coloro che decisero, decidono e decideranno di prendere visione di quest’indimenticabile opera, che racchiude nell’attesa che la seconda guerra mondiale finisca le leggere vicende di relazioni interpersonali e quelle più grevi degli animi dei singoli. Nove anni più tardi il regista Juan Carlos Tabìo nella sua commedia Lista d’attesa adotterà il tema di amicizie nuove e di socializzazione di dubbio assortimento: in una stazione d’autobus di un piccolo villaggio della Cuba dei primi anni novanta confluiscono troppe persone rispetto ai pochi biglietti rimasti per l’unico autobus (in avaria). Costretti in una forzata convivenza, i personaggi dai tratti caratteriali più disparati sono accomunati dalla speranza di poter intraprendere finalmente il proprio viaggio. Topos trattato con serietà, malinconia, comicità ma anche con sottile ironia, perfino per mezzo del titolo, questo è The terminal (che richiama la carica semantica di un qualcosa ormai giunto a conclusione), col quale Spielberg battezzò la storia di un croato, tale Viktor Navorski (Tom Hanks), che, giunto a New York in contemporanea ad un golpe nel suo paese, verrà costretto dalla burocrazia ad attendere a lungo nell’aeroporto. Condizione accettata e resa costruttiva da un protagonista, la quale battuta caratterizzante rimane: “I wait” ovvero “io aspetto”. Decisione, questa, che sorge spontaneamente nel protagonista di Caos calmo (Antonio Grimaldi, 2008), interpretato da un – come sempre – magistrale Nanni Moretti, che in seguito ad un dramma personale si ritrova a promettere alla figlia che l’attenderà, da quel momento in poi, ogni giorno, su una panchina di fronte alla sua scuola. Attesa autoimposta che gli consentirà di vedere la vita da un nuovo punto di vista, permettendogli al fine di ricominciare, in un continuum di scavi psicologici non solo dello stesso protagonista, ma di una pluralità di personaggi. E per arrivare al più recente passato, volgendo lo sguardo al biennio 2015/16, troviamo più meri prodotti dell’industria come Mine, nel quale il tiratore scelto dei Marines Michael Stevens, impegnato in una traversata del deserto in zona di guerra, mette accidentalmente il piede su una mina, cosa che lo costringerà ad una lunga attesa dei soccorsi, tra allucinazioni date da disidratazione e temperature estreme. O Paradise beach – Dentro l’incubo, narrante la vicenda di una surfista costretta dall’ostinazione di un enorme squalo bianco ad attendere pressoché impotente su uno scoglio troppo lontano dalla riva e destinato ad essere sommerso dall’alta marea. Attesa quindi anche angosciante, carica di pathos ed aperta a qualsiasi colpo di scena, ma sempre e comunque guidata dalla speranza, altro messaggio che la trattazione di questa materia riesce costantemente a far passare. Sembrerebbe, da questa molto parziale e brevissima rassegna, che registi e pubblico del nuovo millennio siano sempre più aperti nei confronti di un tema proprio, non solo del cinema ma anche della realtà alla quale esso si riferisce. Viene a questo punto da chiedersi se questo sia solo l’inizio di una tendenza che si farà sempre più strada in questo universo, oppure se sia stato l’apice di una tendenza debole e ormai passata. Per avere risposte a tali domande, non ci resterà che attendere, nella speranza di non fare la fine di quei folli che ebbero la presunzione di aspettare Godot.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *