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Gone girl: il trittico della bugia

Gone girl (L’amore bugiardo) è un film del 2014 diretto da David Fincher, tratto dal romanzo di Gillian Flynn. La pellicola vanta una lunga lista di riconoscimenti (agli attori e alla sceneggiatura, in primis), e un’interessante colonna sonora prodotta da Trent Reznor e Atticus Ross, i quali hanno già collaborato, con Fincher, per la produzione di The social network e di Millennium – Uomini che odiano le donne. Ora, sommiamo questa combinazione di fattori, già interessanti di per sé, ad una trama coinvolgente, intrigante e tutt’altro che scontata, e finiremo con lo stare a fissare lo schermo per più di due ore senza nemmeno rendercene conto; un colpo di scena dopo l’altro, sentendo la storia sfuggire dalle nostre impotenti mani, increduli e inermi.

Ciò che mi ha più colpita e affascinata è l’aspetto della bugia, sia verbale sia nei modi di fare dei protagonisti: in una visione generica possiamo parlare di finzione, in questo caso è legata al rapporto di coppia. Inizialmente la colleghiamo alla figura di Nick, il marito fedifrago e assente, ma con l’evolversi della storia la troviamo anche, e soprattutto, in Amy, la moglie psicopatica. Bugie e finzioni create dai personaggi, prima per conquistarsi, poi per salvare le apparenze, e che, infine, risultano essere la molla che rende la situazione paradossale, quasi grottesca. Da un lato troviamo le bugie “classiche”, quelle da matrimonio allo sfascio: il marito annoiato e frustrato che tradisce la sua consorte e le rifila una serie di banali frottole per sgattaiolare fuori di casa, altre per non avere figli; fino ad arrivare a quelle su scala nazionale, quando rilascia l’intervista in cui si dichiara colpevole dell’essere stato un marito inadatto. Insomma, abbiamo un manuale completo dell’uomo medio che compie errori stupidamente comuni, restando intrappolato in un rapporto assurdo. Dall’altro troviamo quelle storie al limite, oltre la follia: una donna che finge di essere ciò che non è per compiacere, prima, e manipolare, poi, l’uomo-vittima che ha di fronte. Inventa una vita di violenze e la mette in un diario, per poi attuare, sulla base di questo, una vendetta atroce contro l’ingenuo marito, ed uccide il suo ex fidanzato. Qui abbiamo un altro livello di bugie, quelle patologiche, nate dalla mente di una persona che è ben conscia di quale sia la propria natura, e che, con agghiacciante semplicità, riesce a convivere col male che porta dentro, odio puro verso il genere umano. Interpreta diversi ruoli, tutti con lo stesso fine, animata da un fuoco oscuro, essendo per i genitori la mitica Amy, per suo marito una fonte di soldi e per Desi un’ossessione. Rappresenta l’aguzzino mascherato da vittima, ed è talmente immedesimata nelle sue molteplici maschere da giungere a scindere ciò che fisicamente è da ciò che fisicamente interpreta, tanto da progettare, come unico epilogo possibile alla diabolica messa in scena, il suo suicidio: “…e a quel punto Amy e Nick svaniranno, del resto non sono mai esistiti”.

Lasciando da parte l’omicidio, questa storia non è poi così irreale. Normalmente vediamo coppie o persone all’apparenza perfette, per poi scoprirne i lati peggiori. Alla fine il discorso che ci propone Fincher è molto più sottile: conosciamo davvero noi stessi e gli altri? Qual è la verità? Spesso non conosciamo i pensieri o il passato di chi ci sta vicino; ne consegue che ognuno di noi vive, crea e decide di credere a quello che ha davanti, e non sempre è palese e oggettivo.

di Eugenia Consoli

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