Letteratura

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti! – ricordando K. Kavafis – 1

Lacrime giù anche attraverso la terra ti dono, Eliodora / sino nell’Ade, unico avanzo d’un amore, / lacrime amare. Sulla tomba ti offro gemiti, / memorie di passione, memorie di desiderio. / Piangendo, piangendo grido il tuo nome, io Meleagro, / o cara anche tra i morti: vana offerta per Acheronte! / Ahi, dov’è il mio amato germoglio? Ade l’ha rapito, / l’ha rapito, la polvere ha sporcato il fiore lucente.

Il 29 aprile ricorre sia l’anniversario di nascita che di morte del poeta neogreco Kavafis, vissuto tra XIX e XX secolo soprattutto tra Alessandria, Costantinopoli e l’Inghilterra. Al centro della sua poetica mise il mondo della memoria, non solo erotica ma anche storica, ricreando vicende e personaggi di età ellenistica, imperiale, bizantina, realtà in cui l’idealizzazione della grecità dovette confrontarsi con il suo disarmo. La sua Alessandria diviene così, oltre che sfondo di numerose liriche, l’universo perduto della grecità, del naufragio del passato e della poesia stessa come miraggio necessario, tanto che Ungaretti ricordò come proprio grazie a Kavafis La nostra Alessandria assonata in un lampo risplendeva lungo i suoi millenni come non vidi mai più nulla risplendere. Kavafis, tra i numerosi e poco noti poeti neogreci, si fa il più cristallino canto del cigno, attingendo per tòpoi stilistici e contenutistici ad una millenaria tradizione classica, la quale ci è dunque necessaria per comprendere la purezza dello spirito che aleggia nella sensibilità di Kavafis stesso. Partiamo allora dai versi introduttivi, che ci appaiono ancora profondamente strazianti, del greco Meleagro, tratti dall’epigramma funerario per l’etera amata Eliodora, il 476 del VII libro dell’Antologia Palatina. Eppure ci travolge, ci affascina estremamente il sentimento della perdita definitiva e irreversibile d’un amore e la conseguente malinconia nostalgica per un passato idealizzato rispetto ad un presente caratterizzato da assenza, mancanza e consapevolezza. Il poeta si macera nelle memorie felici, nell’ardore sbiadito e nella freschezza di un tempo ormai troppo lontano, di cui non gli restano che gemiti e pianti, poiché tutta la grandiosità tende ad appassire più presto che mai come il fiore che esplode ed emana i suoi colori e profumi migliori fulmineamente prima di venire subito deturpato dalla caducità e dalla natura delle cose. E la fugacità, la volubilità, la precarietà dell’amore, così come della felicità e della bellezza e del tempo stesso, ci atterriscono, a volte ossessionano, riversandoci nell’agonia d’un inappagabile tormento e d’una ricerca di senso nei confronti della fine e della perdita.

Tale sentimento comparve nella tradizione lirica inizialmente su sfondo bellico: poeti elegiaci quali Tirteo e Callino inneggiavano alla virtù militare, alle res gestae, alla gloria eroica, di cui la morte per necessità doveva essere il sigillo. Nient’altro si sarebbe potuto desiderare se non il dolce rimpianto per un eroe caduto valorosamente in guerra. Socialmente gli si tributavano grandi onori: Il prode, / se muore, è pianto da piccoli e grandi; / la nostalgia di tutta la sua gente lo circonda, / mentre, se vive, è come un semidio. Da questa dimensione sociale e civile prende avvio la lunga tradizione di lirismo intimo e privato, di cui Mimnermo e Saffo rappresenteranno per noi i perni di partenza. Il primo piange la scomparsa della giovinezza, della floridità della vita, della felicità di un attimo irrefrenabile e viscerale ma fragile e instabile, È, gioventù preziosa, come un sogno / precario. Incombe subito, alta sul capo, lei, / quella vecchiezza squallida e sinistra / che fa l’uomo aborrito e senza pregio e scuro: / una fascia che sconcia gli occhi e l’anima; la seconda invece, mantenendo ciò sullo sfondo, si strugge soprattutto per la fine di un idillio sentimentale, Lei lacrimava fitto / lasciandomi. Disse: “Che sorte / crudele, Saffo! Credi, non vorrei / lasciarti”. / Io le risposi: “Addio, / va serena e ricordati / di me. Tu sai che t’ho voluto bene. / Oppure – sarò io / a ricordare: [tu dimentichi] – / pensa alla nostra storia, così dolce.

La delicatezza e dolcezza saffica si trasformano in aggressività delusa e disperata nella relazione catulliana con Lesbia, ben più articolata e sviluppata stilisticamente. Nei carmi LXXII e VIII si evincono chiaramente l’amarezza, la delusione, l’abbattimento per transitorietà dell’entusiasmo erotico: Andavi dicendo un tempo che conoscevi solo Catullo, / Lesbia, e al mio posto non avresti voluto nemmeno Dio. Ma il ricordo per natura ci porta a non rassegnarci. A spaventarci è proprio l’accettazione dell’irreversibilità, poiché decapita le illusioni e toglie adito a possibili speranze. E ciò che hai perso consideralo perso, il poeta prova a essere razionale, ma dall’incipit lucido e determinato scivola in un climax di considerazioni emotivamente dilanianti: lei così tanto amata da me quanto mai più nessuna sarà; non seguire chi fugge e non vivere infelice; lei non ti cercherà e non ti pregherà controvoglia. Intervalla questi tentativi con espressioni icastiche di cui non riesce a liberarsi: sono il ricordo che vibra forte nell’animo e nel corpo e che non riesce a essere estirpato. Splendettero davvero un tempo per te giorni felicissimi. È inutile provare a controllarsi, il dolore stravolge ogni cosa, tanto che nel finale Catullo grida apertamente il proprio strazio: Crudele, guai a te, che vita ti rimane? / Chi ora ti cercherà? A chi sembrerai bella? / Chi ora amerai? Di chi si dirà che tu sia? / Chi bacerai? A chi mordicchierai le labbra? Non vi è risposta al tormento dell’innamorato, solo angoscia e lacerante dolore. Prova a non pensarci, ma gli stessi interrogativi ossessionano l’abbandonato che non trova pace e si consuma nell’assenza di risposte, nella reminiscenza del passato che non abbellisce il presente, ma lo rende ancor più soffocante e vuoto. La prospettiva di un futuro permeato da incompletezza e mancanza, dalla consapevolezza del fatto che chi abbiamo amato apparterrà, contro la nostra volontà, ad altri, non viene attenuata nemmeno dalla rabbia e dalla vendetta.

Rispetto all’antichità, la modernità si concentra maggiormente sulla rassegnazione. Rivive il sentimento di tristezza per la grandeur estinta, affiancato da una sconsolata accettazione, nonché sopportazione, d’un presente di mancanza, colmato d’angoscia. Tornando perciò a Kavafis, al poeta della nostalgia e dell’anamnesi per eccellenza, all’edonista non vittimista ancorato al passato, al bovarista a ritroso, ricerchiamo quanto detto finora nelle sue liriche erotiche. Chiaramente il tempo agisce sulle memorie esattamente come un incendio non lascia che cenere e braci: Questo ricordo lo vorrei ridire… / Ma ormai s’è così spento… quasi più nulla resta – / perché giace lontano. Il poeta ha però il bisogno di soffiare tra la polvere per alimentare le poche scintille che spera siano rimaste, nonostante tutto, sapendo che nulla potranno più di un bagliore ultimo. Voci ideali e amate / di quanti sono morti, di quanti / sono per noi perduti come i morti. […] Col loro suono riemergono un istante / suoni della poesia prima della vita – / come una musica di notte, che in lontananza muore. Vi è dunque un illanguidire di dolcezza e di poesia nel suo animo, un illanguidire fino al deliquio, quasi costretto e autoimposto, in un piacere artificioso. Guardai così fissa la bellezza / che se n’è riempito lo sguardo. // Linee del corpo. Labbra rosse. Membra sensuali. / Capelli come da statue greche presi: / anche se spettinati sempre belli, / caduti un po’ sopra le fronti bianche. / Volti d’amore, come li voleva / la mia poesia… le notti della mia giovinezza, / nelle mie notti incontrati di nascosto… È ossessionato dal proprio vissuto, non ha saputo lasciarsi alle spalle nulla, volontariamente, per potersi sentire vivo almeno nella reminiscenza: Immerso nei miei sogni, / perduto nell’incanto, in questa luce tenue – / immerso nei miei sogni io fantasticherò / che vengano le Ombre, le Ombre dell’Amore. L’annegare nelle ombre delle cose e il venerare le reliquie delle glorie passate denotano un’esistenziale disperazione del presente – addirittura titolo per alcuni versi: Ormai non l’avrà più / su labbra d’altri giovani cerca le sue labbra / tenta di far rivivere di nuovo quel suo amore – inoltre si evince una mancanza di serenità e armonia, un bisogno radicale di vivere e provare piacere con ogni mezzo possibile, soprattutto ricorrendo al ricordo, quasi a mostrare con fierezza che è stato, che si è stati fortunati, i prescelti dalla sorte, poco importa se non è più, ma almeno è stato. E poi si sa, gli dèi puniscono sempre la tracotanza umana e così la loro invidia estirpa ciò che gli stessi un tempo avevano elargito, anche non inavvertitamente, ai mortali. La sensualità è la struttura portante dell’opera, ma non il libertinaggio o la depravazione o la dissolutezza o ancora una sregolatezza immorale, bensì un erotismo scelto e misticheggiante. E lì, sull’infimo e sordido giaciglio, / ebbi il corpo d’amore, ebbi le labbra / sensuali e rosate dell’ebbrezza – / rosate di una tale ebbrezza, che anche adesso / che scrivo, dopo tanti anni!, / nella mia casa solitaria, m’ubriaco ancora. Infine Torna sovente e prendimi, / torna e prendimi, amata sensazione – quando il ricordo del corpo si ridesta / e trascorre nel sangue il desiderio antico; quando labbra e pelle rammentano, / e alle mani pare di nuovo di toccare. // Torna sovente e prendimi, la notte, / quando labbra e pelle rammentano…

Poesie citate senza titolo nel testo, in ordine. Kavafis: Lontano, Voci, Guardai così fissa, Che vengano, Una notte, Torna.

Federico Corradi

Federico Corradi è nato a Brescia il 6 gennaio 1999, è cresciuto a Palazzolo sull'Oglio, dove ha conseguito la maturità scientifica. Attualmente studia Lettere Classiche presso l'Università di Pavia.

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