Letteratura

Come le foglie – L’autunno in poesia da Mimnermo a Larkin

Le foglie morte cadono a mucchi / come i ricordi e i rimpianti / e il vento del nord porta via tutto / nella più fredda notte che dimentica. / Vedi: io non ho dimenticato / la canzone che mi cantavi.

Quest’anno, per il ritardo dell’autunno, gli alberi hanno atteso più del solito a spogliarsi, rallentando quel momento che scatena spesso nell’animo, attraverso una sua propria carica poetica, moti di angoscia e malinconia. Molti poeti, in ogni stagione, hanno cantato la malinconia delle foglie autunnali: tra i più celebri, Prévert ne Le foglie morte rievoca la nostalgia dei tempi felici, i ricordi passati, il crogiolarsi nel rimpianto. Nonostante la vita separi silenziosamente chi si ama, proprio come le foglie cadono, spazzate via dal vento, e le onde cancellano sulla sabbia i passi degli amanti, il poeta insiste che l’eco della loro canzone d’amore non potrà ingiallire né appassire: Come potrei dimenticarti. La canzone che tu cantavi, la sentirò per sempre.

García Lorca ha lo stesso timore, prevede l’autunno d’un amore, sapendolo inevitabile. Nel Sonetto del dolce lamento spera che, una volta caduta la meraviglia del sentimento e seccata l’emozione, l’amato non lo dimentichi; si augura poi che il passato e il suo dolore abbiano un senso e che all’amato resti qualcosa di suo, un minimo ricordo, che lo accompagni per sempre: e adorna le acque del tuo fiume / con foglie del mio autunno allo sbando. La vanità e l’oblio spaventano il poeta, che desidererebbe solo, fino alla fine, rimanere nel letto del suo amore.

Il tema dell’inesorabilità è ripreso da Neruda nell’ Ode a una castagna caduta al suolo: È caduta una foglia dell’autunno rosso, / impassibili hanno continuato a lavorare / le ore sulla terra. Questi pochi versi richiamano, con lucida consapevolezza, l’indifferenza del tempo, la cui crudeltà apparente in realtà svela un barlume di sollievo, poiché il tempo senza sosta da una morte imminente preannuncia una rinascita nascosta.

Larkin ne Gli alberi mette in luce proprio il rigermogliare mancato degli uomini, riflettendo sul riapparire doloroso del verde nelle piante, destinate alla ciclicità, diversamente dalla nostra giovinezza: Perché loro nascono ancora mentre / noi invecchiamo? Naturalmente l’interrogativo non ha una risposta, come nemmeno la poesia difatti, che termina con ironia amara con il verso onomatopeico, sul suono delle fronde: Begin afresh, afresh, afresh, riferito alla periodicità e caducità degli anni, monotonia per l’albero, struggente angoscia invece per l’uomo. In Novembre, Pascoli ancora allude al destino umano: E vuoto il cielo, e cavo al piè sonante / sembra il terreno. // Silenzio, intorno: solo, alle ventate, / odi lontano, da giardini ed orti, / di foglie un cader fragile. Nella sterilità e nell’assenza di vita, il vento si fa voce del fato: la sinestesia risuona nell’aggettivo fragile, in paranomasia con foglie, stando a indicare l’assenza di ferocia e violenza della morte e ancor più una pietosa immagine della nostra vera natura. Le foglie appassiscono senza boati, di nascosto, così le anime ci lasciano senza voler fare rumore, spesso andandosene nell’indifferenza e nell’anonimato. Suggerendoci impotenza. L’inermità e la fragilità umana ritornano in Imitazione di Leopardi, che si sofferma sul destino del singolo, a differenza di Mimnermo. Questi, come Omero, Virgilio e Dante, ha più caro il destino delle generazioni, oltre che la brevità della giovinezza e la morte come unica soluzione alla vecchiaia. Leopardi invece segue la vicenda di una foglia staccatasi dal ramo, metafora del percorso della nostra esistenza: Povera foglia frale, / dove vai tu? Girovaga nel vento torna dove è nata: Vo dove ogni altra cosa, / dove naturalmente / va la foglia di rosa, / e la foglia d’alloro. Comprendiamo come, insieme alla bellezza, alla gloria, la vita sia effimera; tutto ritorna nel nulla.

Ecco che la medesima situazione di vagabondaggio e nichilismo viene vissuta da Verlaine, in Canzone d’autunno, e lo spinge a lasciarsi andare alla disperazione irrazionale e incontrollata: Singhiozzi lunghi / dai violini / dell’autunno // mordono il cuore / con monotono / languore. // Ecco ansimando / e smorto, quando / suona l’ora, / io mi ricordo / gli antichi giorni / e piango; // e me ne vado / nel vento ingrato / che mi porta / di qua di là / come fa la / foglia morta. Il ricordo della primavera sentimentale porta ad abbandonarsi totalmente agli spifferi di una dolorosa nenia esistenziale, del rimpianto e della nostalgia dell’amore vissuto, lasciandosene sopraffare.

La morte, esplicita in Prévert e Verlaine e così spesso ricorrente in Corazzini, fa da sfondo alla sua lirica Il ritorno: Ancora, sorella, il cipresso, / laggiù, coronato / di piccole, pallide rose, / ancora lo stesso / viale, le scale corrose, / la porta, le brevi / finestre serrate / da l’ultima estate, / l’antica fontana / che accolse la luna e le stelle, / che accoglie le nevi / che accoglie le foglie. A metà componimento, dopo l’anafora che conclude l’immagine, il poeta si sofferma sulle foglie. Non si fa riferimento ad un cascare in atto, ma ad una situazione abituale. La fontana è abituata ad accogliere le foglie in autunno, come il poeta e la sorella sono abituati a sentire nell’aria un flebile suono di morte, a lasciar andare le parole, a vivere il trascorrere del tempo e a sentirlo passare sulla pelle. Ma nella conclusione, nella paralisi del tutto, sfrecciano nel cielo gli unici elementi vivi: come due colombi spauriti, / i tuoi grandi occhi smarriti, / su le perdute cose. La fugacità periodica del tempo è inarrestabile; ciò non infonde speranza, quanto invece il triste abituarsi allo smarrimento, alla nostalgia per le cose perse, passate, morte, di cui ci rassegniamo ad essere testimoni.

Riflettendo, forse solo Saffo riuscì, con la sua grande freschezza, a conciliare destino, stabilità, dinamicità, sofferenza, morte, vita e speranza, naturalmente nell’amore, la sola illusione che sempre ci salva, la sola illusione che sempre resta: Amore la mia anima squassa / come vento che sul monte tra le querce si abbatte.

 

Federico Corradi

Federico Corradi è nato a Brescia il 6 gennaio 1999, è cresciuto a Palazzolo sull'Oglio, dove ha conseguito la maturità scientifica. Attualmente studia Lettere Classiche presso l'Università di Pavia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *