Attualità

Da al-Qaida all’ISIS: evoluzione o transizione?

Al-Qaida non è l’unico gruppo radicale islamico che ha fatto uso di strumenti quali il terrorismo e il jihadismo. È diventato il più famoso perché è riuscito a realizzare quello che per altri era solo un obbiettivo, colpire l’America sul proprio suolo nazionale (solo il Giappone ci era riuscito, nel 1941, a Pearl Harbor). Il successo interno riscontrato con questo atto e la capacità di adattarsi alle circostanze internazionali, ha trasformato al-Qaida da gruppo in rete di gruppi. Alla morte del capo, però, è corrisposta l’ascesa di una fazione interna. Un’ascesa dovuta a fattori esterni ed interni: quelli esterni corrono lungo la faglia che destabilizza il Medio Oriente sia al livello politico che etnico-religioso; quelli interni si delineano invece su vari fronti.

Volgere lo sguardo al passato è un po’ fuorviante quando si tratta della storia di al-Qaida, soprattutto per chi ha preso coscienza del fenomeno solo dopo il 11 settembre 2001. L’attacco alle Torri Gemelle, e in parte la retorica vendicativa degli Stati Uniti, ha presentato al mondo un gruppo che sembra invincibile: un gruppo ramificato, forte, spuntato dal nulla e mosso unicamente dall’odio per l’Occidente. Una minaccia a tutto tondo, un’organizzazione che non aveva altri mezzi che sferrare attacchi impari a danno di innocenti. Ma al-Qaida e, oggi, l’ISIS (che si è rivelato per la prima volta con gli attacchi di Charlie Hebdo), sono gruppi che si sono evoluti nel tempo, internamente e forse silenziosamente, e che hanno stretto dei legami in modo progressivo e graduale con altri gruppi islamici radicali e armati.

Al-Qaida, come visto in precedenza, si è formato in Afghanistan grazie all’azione del palestinese Abdullah Azzam; si è poi spostata in Africa per volontà del suo nuovo capo Osama Bin Laden, per poi tornare in Afghanistan, da dove si è evoluta con un processo lungo e graduale ed è riuscita ad inglobare nuovi combattenti e nuovi capi. Ma in quegli anni, dal 1989 in poi, non era l’unica al mondo a condurre una lotta armata contro governi più o meno legittimi (sia in termini musulmani che politici). In Europa centrale, in Nord Africa, in Medio Oriente e perfino in Asia, i fronti aperti erano molteplici .

Nel 1992, per esempio, in Algeria ci fu una crisi politica molto forte provocata dal partito al governo che annullò i risultati delle prime elezioni svoltesi dopo la fine del regime militare perché il partito del Fronte Islamico della Salvezza era dato per vincente. Un evento che ha fatto piombare l’Algeria nella (cieca) violenza di matrice islamica, prima per mano del Gruppo Islamico Armato (GIA) e poi del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC). Quest’ultimo è nato nel 1998 per secessione dal GIA in quanto non era incline ad accettare l’accordo di armistizio proposto dalle forze di sicurezza, cosa alla quale il GSPC era favorevole, dato che il suo fine ultimo era quello di instaurare il Califfato in Algeria. I capi del GSPC facevano parte dei cosiddetti “arabi afghani”, ovvero quei combattenti stranieri che si erano addestrati nei campi afghani e che erano tornati ai rispettivi paesi dopo la fine della guerra. Tra questi si annoverano i due capi principali delle fazioni algerine Abdelmalek Droukdel (noto anche come Abu Mussab Abdel Wadud, ormai deceduto) e Mokhtar Belmokhtar (nel 2012 ha abbandonato a causa di differenze di opinione con altri capi ed è andato a combattere in Mali, dove oggi sembrerebbe essere uno degli organizzatori del traffico di armi). Non si può sapere se tra il GSPC e al-Qaida i contatti siano stati sempre mantenuti, ma mai sfruttati, sta di fatto però che nel 2006, al-Zawahiri e Bin Laden hanno riconosciuto il GSPC come affiliato legittimo, tanto che il gruppo ha cambiato nome in al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQMI).

Altri “arabi afghani” provarono a portare il jihad contro il Re saudita. Pare fosse un’esplicita richiesta di Bin Laden, avvenuta sull’onda dell’entusiasmo provocatogli dagli eventi del 11 settembre, una vendetta per lo stile di vita corrotto ed eccessivamente occidentale del Regno. Nasser Abdul Karim al-Wuhaishi raggiunse al-Qaida in Afghanistan nel 1998, nel 2001 andò in Iran, dove venne arrestato ed estradato in Yemen nel 2003; Qasim al-Raymi invece era stato uno degli addestratori dei campi afghani e dopo la guerra era tornato in Yemen. Nel 2004 fu arrestato e imprigionato perché accusato di aver pianificato un attacco contemporaneo a cinque ambasciate straniere presenti a Sana’a. Al-Wuhaishi e al-Raymi sono riusciti ad unire le frange saudite e yemenite della lotta anti-occidentale favorendo una recrudescenza dell’opposizione ai governi, entrambi considerati eccessivamente eterodiretti. Nel 2008, hanno entrambi rivendicato un attacco terroristico (non suicida) all’ambasciata americana di Sana’a, evento dopo il quale al-Qaida ha ufficializzato la loro affiliazione, diventando dunque al-Qaida nella Penisola Arabica (AQPA). La difficoltà nello sconfiggere AQPA sta nel fatto che i combattenti sono protetti da una parte della popolazione, che li vede come unico argine ad un governo non rappresentativo. In realtà ci sono anche cause legate al fatto che la regione yemenita si è trasformata nell’ennesimo teatro della guerra per procura che sta avvenendo tra Arabia Saudita e Iran, quindi, nonostante le forze di sicurezza saudite abbiano avuto un relativo successo in passato, oggi è molto più complesso neutralizzare AQPA.

Ma l’affiliato più interessante è quello creato in Iraq sotto la direzione di Abu Musab al-Zarqawi (al secolo Ahmed al-Kalalyeh). Egli era un giordano di umile origine, nato e cresciuto a Zarqa, una triste periferia povera di Amman. Da giovane era un ragazzo difficile, ed è rapidamente entrato in un giro di piccoli criminali, proprio in prigione ha subito la propria radicalizzazione. Al momento del rilascio partì per l’Afghanistan, per combattere contro l’oppressore sovietico a fianco dei gruppi radicali islamici, ma arrivò solo dopo la partenza dei mujahidin (resistenti). Tornò dunque in Giordania per combattere contro il governo del Re, eccessivamente corrotto e poco musulmano. Ma i suoi sforzi non portarono a niente, le sue risorse erano scarse e non riusciva ad attirare nuovi combattenti. Tornò in Afghanistan dove costruì un suo campo di addestramento a Herat vicino al confine con l’Iran, lavorava in autonomia (principalmente alla creazione del Jund al-Islam, esercito dell’Islam) e non ci sono informazioni riguardo a contatti con i vertici di al-Qaida, se non un incontro fisico con Bin Laden avvenuto nella città di Kandahar nel 2000.

Al-Zarqawi non condivideva l’idea di combattere il “nemico lontano”, voleva invece eliminare tutti i regimi apostati presenti in Medio Oriente, e aveva una particolare inclinazione all’odio per la comunità musulmana sciita. Un odio che maturò e trasmise ai suoi discepoli nel campo di Herat. Infatti tra gli obbiettivi dei primi attentati suicidi (tecnica sulla quale faceva molto più affidamento di altri gruppi, oltre alle solite tattiche tipiche della guerriglia), ci fu la Moschea dell’Imam Ali di Najaf, uno dei centri religiosi e di studio di maggiore riferimento per il mondo sciita. Si opponeva comunque ad altre due realtà: il regime di Saddam Hussein in Iraq e la presenza americana in Medio Oriente. Al-Zarqawi al momento della creazione del suo Jama’at al Tawhid ua al-Jihad (Gruppo per l’Unicità di Allah e il jihad) ha messo in evidenza la necessità di aprire due fronti: uno di carattere settario e uno internazionale.

Come Bin Laden, credeva nell’uso di internet come forte strumento di propaganda; non solo, riteneva fosse anche un efficace strumento intimidatorio, infatti oltre a condividere dei testi nei quali accusava gli sciiti di essere il “veleno penetrante”, pubblicava i primi video di decapitazione degli ostaggi, e reclutava parte dei suoi combattenti attraverso il web.

Nel 2004, al-Zarqawi giurò fedeltà a Bin Laden, portandosi sotto il controllo di al-Qaida. Una decisione che fu sancita con il cambio del nome in Tanzim al-Qaidat al-Jihad fi Bilad al-Rafidayn (Organizzazione di al-Qaida per il jihad nello Stato tra i due fiumi) o più semplicemente al-Qaida in Iraq (AQI). Questa affiliazione gli permise di ottenere maggiore visibilità nella rete clandestina delle organizzazioni islamiche radicali, seguì poi un importante flusso di nuovi finanziamenti, supporto logistico e combattenti. Il messaggio di al-Zarqawi divenne ulteriormente radicale, dichiarava di voler difende il monoteismo (unicità di Allah, il tawhid) ed eliminare il politeismo (di cui erano accusati gli sciiti), ma anche tutte le violazioni alla religione islamica che identificava nel tribalismo, nazionalismo, comunismo e ba’athismo (politica e cultura portata e difesa dal Partito Ba’ath). Nonostante la comunanza di intenti, Bin Laden e al-Zawahiri erano preoccupati da al-Zarqawi: ritenevano che i suoi metodi e la sua retorica anti-sciita fossero una distrazione dall’obbiettivo ultimo, ovvero l’annientamento dell’America, della sua cultura, a cui doveva seguire l’instaurazione di un Califfato Islamico (anche se Bin Laden insisteva che i tempi per questa cosa non fossero ancora maturi).

Nel giugno del 2006, al-Zarqawi fu ucciso in un raid aereo americano, la sua organizzazione cadde nel caos più totale. Al-Qaida per non perdere i combattenti e il dinamismo che questi avevano dimostrato cercò di creare un’organizzazione ombrello, all’interno della quale essi potessero continuare ad agire. Ma la mancanza di un leader sul territorio, di un leader come al-Zarqawi, era evidente e per quattro anni AQI rimase ferma.

Fino al 2010, quando la leadership è stata presa da Ibrahim Awwad Ibrahim al-Badri al-Samarri. Egli era il degno erede di al-Zarqawi, ne condivideva tutti gli obbiettivi e tutti i metodi. Le informazioni circa la loro relazione sono contrastanti. Da un lato c’è chi dice che si siano incontrati in Afghanistan, altri dicono che la sua radicalizzazione sia avvenuta negli anni di prigionia al Camp Bucca, prigione americana di Baghdad. Quello che è certo è che è stato lui a riprendere le fila di AQI, che ha rinominato ISI, Stato Islamico in Iraq e che ha saputo sfruttare la destabilizzazione regionale per creare il suo Califfato, l’ISIS, che guida con il nome di Abu Bakr al-Baghdadi.

Si è costruito una reputazione in maniera simile al suo predecessore, pubblicando in rete i video delle decapitazioni di coloro che riteneva stessero collaborando in Iraq con le forze della Coalizione. Ha richiamato a sé tutti i combattenti di AQI e altri, insistendo sui due stessi fronti di al-Zarqawi: la guerra religiosa interna contro tribalismi e politeismi e quella internazionale contro l’America, l’Occidente e l’Europa. Nel 2010, aveva mandato una parte dei suoi combattenti in Siria, un gruppo che si identificava con il nome di Jabhat al-Nusra (Fronte della Vittoria), in un paese molto destabilizzato sull’orlo della rivoluzione, con l’obbiettivo di reperire delle armi. Oltre a queste, Bashar al-Assad gli servì su un piatto d’argento una serie di nuovi combattenti, non tanto radicalizzati, quanto determinati nel porre fine alla sua dittatura. Questa mossa in realtà è abbastanza comica con il senno di poi, poiché la liberazione dalla prigione di Stato di una serie di oppositori politici doveva servire a neutralizzare le proteste popolari e alleggerire la pressione interna sul governo, non a rinfocolare l’odio e ingrossare le fila di al-Nusra.

Nel 2011, gli Stati Uniti riuscirono ad uccidere Bin Laden con un blitz delle forze scelte. Un evento che dal mondo occidentale è stato salutato come la fine del terrore, la vendetta finale per quell’attentato che per anni aveva trasformato il Medio Oriente e i mediorientali in una costante minaccia. A ben guardare, però, ne ha creata un’altra ben più grande. L’assenza di Bin Laden si è chiaramente fatta sentire, non solo al comando generale di al-Qaida, ma anche nella guida dei suoi affiliati. Al-Zawahiri appariva solo e senza più attrattiva, incapace di richiamare il dinamismo dei giovani combattenti freschi di radicalizzazione, un confronto difficile da reggere con il successo di al-Baghdadi.

Nel 2012, dunque, complici gli sconvolgimenti interni, regionali e internazionali, al-Baghdadi ha accettato il passaggio di alcuni dei combattenti di al-Nusra sotto il suo controllo, dando vita al Tanzim al-daulat al-Islamiyya fi al-Iraq ua al-Sham, o più comunemente: ISIS. Al-Zawahiri non è stato capace di impedire questo passaggio, si è dichiarato contrario, dato che il legittimo rappresentante di al-Qaida era al-Nusra e non l’ISIS e che al-Baghdadi doveva rispettare le gerarchie, ma il dado era tratto e al-Zawahiri ci ha fatto la figura dell’uomo solo di un comando al tramonto (ora però, non si deve cascare nell’errore di credere che se l’attenzione si concentra sull’ISIS, al-Qaida sia sparita. Forse non gode di buona salute ma è ancora presente e i suoi affiliati sono ben saldi al loro posto).

Al-Qaida si è trasformata da base in network non localizzato, l’ISIS invece ha sfruttato quella rete per garantire ciò che al-Qaida non era riuscita a costruire: un’identità statuale, califfale per la precisione, un obbiettivo concreto per il quale battersi che non rimanesse solo a livello generico di distruzione dell’Occidente e della sua cultura a vantaggio di quella musulmana salafita. Il radicamento sul territorio e la “riconquista” delle terre musulmane a danno dei governi empi, hanno un valore molto importante. I foreign fighters di al-Qaida dovevano recarsi in Afghanistan per procedere al proprio addestramento, ma una volta terminato, la loro lotta si svolgeva altrove. Il fatto che l’ISIS abbia ottenuto dei terreni, delle città, delle campagne in uno spazio geografico più o meno continuato, dà ai combattenti l’idea di avere una casa, un luogo legittimo nel quale recarsi. Un luogo dove compiere la propria hijra, l’egira personale, quel viaggio che il combattente (in teoria ogni musulmano osservante) fa per scappare dagli infedeli e andare verso una protezione assicurata. Non tutti i campi di addestramento dell’ISIS si trovano in Siria e in Iraq, ma praticamente tutti i combattenti jihadisti (eccezion fatta per coloro che ritornano al proprio paese in quanto chiamati all’atto terroristico suicida) vanno a vivere in Siria e/o in Iraq.

Così come aveva fatto al-Qaida anche l’ISIS si è ramificato, in modo nettamente più rapido e percorrendo la rete costruita da al-Qaida. Se però, in precedenza, le affiliazioni avevano un valore di moltiplicazione di fronti da cui opporsi alla Coalizione internazionale, i rami dell’ISIS oggi hanno un carattere molto diverso. Essi sono degli Emirati, delle luogotenenze. Un concetto preciso, dunque, un concetto politico, a dimostrazione di una volontà di creare ciò che gli altri gruppi radicali rimandavano ad un futuro remoto: il radicamento, in Medio Oriente prima e nel mondo poi, di uno Stato Islamico.

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