Musica

Come as you are – La parabola musicale di Kurt Cobain

L’8 aprile 1994 l’universo del rock è ancora una volta in lutto: i media hanno diffuso la notizia che Kurt Donald Cobain, leader dei Nirvana, è morto. Il corpo esanime è stato rinvenuto nella sua abitazione di Seattle in una pozza di sangue, accanto ad un fucile; le indagini autoptiche del coroner aggiungeranno a breve un tassello disturbante a questo quadro: il decesso è avvenuto tre giorni prima. Le persone a lui più vicine conoscevano troppo bene le vicende relative al suo stato di salute mentale per illudersi che si fosse trattato di un omicidio o un incidente.

Ancora una volta. Lo dicevano gli adulti che il rock era un genere affatto pericoloso, il cui impatto distruttivo non doveva essere sottovalutato sul piano sociale, tanto più che il suo seguito contava quasi esclusivamente giovani tra i 16 e i 25 anni. Sebbene artisti come gli Stooges, band punk ante litteram, alla domanda dei giornalisti “Qual è in fondo la vostra filosofia di vita in qualità di rockers?avessero lapidariamente risposto, alla fine degli anni ‘60: “Non abbiamo una filosofia di vita, noi ci limitiamo a vivere, agli analisti più attenti del fenomeno-rock non era sfuggita quell’intrinseca tensione, quella missione, che i suoi esponenti più invasati intendevano promuovere e realizzare, e che consisteva in una deliberata ma consapevole rottura con qualunque canone ascrivibile all'”ordinato viver civile”, con qualunque acritica convenzione, financo con qualunque limitazione in cui l’uomo comune, il non-sensitivo (per dirla con Jim Morrison) sarebbe altrimenti rimasto incatenato a vita. Una missione carica di una spiritualità nera, un profondissimo e partecipato deréglement de tous les sens, un gioco col fuoco in cui, però, era più probabile rimanere irrimediabilmente bruciati che uscirne indenni.

Kurt è l’ennesima conferma della pericolosità di questa fusione misticheggiante, operata dalla musica rock, tra Arte e Vita, laddove una vita spericolata all’insegna di stupefacenti e di selvaggia sessualità feconda l’arte e dove l’arte sublima, ma – pare – in maniera assai precaria, la dionisiaca spinta di vita da cui essa proviene. Ogni volta che questo cerchio tra essere e narrare si chiude, il suo Satiro (che sia a seconda dei casi Jim Morrison o Janis Joplin, Elvis o Brian Jones) finisce sempre col lasciarci la pelle e trasfigurarsi in leggenda.

I Nirvana si formano, nel 1986, in un contesto decadente, in un momento crepuscolare della vita del rock in cui dell’élan vital degli anni ’70 poco è rimasto; il blues-based style dei Rolling Stones e dei Led Zeppelin ha ceduto il passo ai ritmi binari del punk anglosassone e del nascente indie-pop. Pare però che di protagonisti maledetti vi sia ancora bisogno, per conferire una vitalità minima ad un genere di cui i Guns ‘n’ Roses negli stessi anni stanno dimostrando l’inesorabile declino. Eroi di guerra in tempo di pace i primi, i Nirvana vogliono di più, vogliono scavare nei meandri del disagio esistenziale e cavarne qualcosa di nuovo: è questo il modo in cui intendono essere originali. Vede così la luce il grunge, genere dalle sonorità sporche che nasce nei polverosi garage di Seattle per sopperire alla noia di pomeriggi senza orizzonti morali o esistenziali, e di cui Kurt assurge presto a principale punto di riferimento.

Kurt Cobain era tanto disponibile ad assorbire stilemi provenienti da correnti assai eterogenee quanto poco incline a comporre brani realmente eclettici. Ascoltava dai Beatles ai Sex Pistols, restava magari affascinato dalle melodie dei primi, ma è ai secondi che guardava in ultima istanza per trarre ispirazione in termini di attitude, ossia di “atteggiamento”. Egli, dunque, era un artista punk in spirito, ma voleva vestire quel punk con un abito meno sdrucito e più variopinto, come se la percezione dei “colori” musicali permettesse per davvero all’ascoltatore di assaporare l’ironica illusorietà della vita e delle sue gioie. Kurt era in tal senso un illusionista, ma l’oggetto dell’illusione era se stesso: c’era e non c’era. Un giorno si sentiva sereno ed ispirato nel comporre, un altro giorno sprofondava nell’esperienza dell’eroina che, a suo dire, serviva a placare un “disturbo gastrico” e non, come appare in retrospettiva piuttosto evidente, a riequilibrare in modo pur precario i suoi forti sbalzi d’umore. Un giorno suonava in diretta su MTV (resta storico il suo concerto del 1992 in unplugged, ossia in acustico) e un altro giorno non c’era più, ma questa volta per sempre perché un colpo di fucile autoinflittosi andava a porre fine alla sua esistenza.

A 24 anni dal decesso lo ricordiamo come un poeta, ma un poeta della morte, un artista che ha cantato gli orrori della depressione e che quella depressione ha incarnato, coerentemente, fino all’esito conclusivo della sua esistenza.

 

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