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Balcani: veramente terre di conflitto?

Sicuramente di lunedì sera, quando fuori piove e fa freddino, uscire per andare a sentire una conferenza è da eroi. Però a volte merita. Merita perché ci sono delle serate che permettono di fare un po’ di chiarezza su quelle regioni del mondo che nella mente rimangono zone grigie. La stessa etichetta indistinta che, nella mappa mentale, copre la Russia dicendo “vodka”, nasconde i Balcani con un banale “qui? Mah…guerra?”

Invece la prima serata di “Balcani – Terre di Conflitto” promossa da Radio Aut e tenuta da Francesca Carral è proprio l’occasione per rimuovere quell’etichetta, o quantomeno ridurla.

Francesca intervista Simone Benazzo, un collaboratore di East Journal, rivista online di giornalismo partecipativo, sul tema dell’islamofobia nei Balcani. Ma in realtà, l’islamofobia non è che il filo conduttore di un discorso ben più ampio in una regione che porta ancora i segni e le conseguenze della guerra scaturita al crollo della Jugoslavia.

Cominciamo dal titolo: Terre di conflitto. Per poter avere un quadro veramente chiaro della situazione è proprio da lì che bisogna partire, I Balcani non sono solo una terra di conflitto, lo sono stati, ma non è più quello che li caratterizza. Anche se è vero che le linee di contrasto e le ferite aperte nella regione sono molteplici, è necessario superare l’idea che la regione sia ancora preda di odi atavici di matrice etnica o religiosa. Allo stesso tempo è necessario passare oltre la concezione che tutti quegli Stati rappresentino un confine dell’Europa, un “altro”, diverso proprio in virtù degli stessi conflitti.

L’idea della diversità nasce dal fatto che in alcuni paesi come la Bosnia-Erzegovina, l’Albania e il Kosovo è presente una maggioranza della popolazione di religione musulmana. L’Islam è un lascito del periodo di dominazione ottomana. Un’epoca durante la quale, un po’ per fede un po’ per convenienza, una parte della popolazione si è convertita, mentre alcuni altri tenevano fede a quelle che consideravano le loro vere origini, quelle cattoliche o ortodosse. Così si vennero ad opporre in una lunga e intricata questione di superiorità etnica, di dominio territoriale, alcune comunità religiosamente ed etnicamente differenti tra loro.

Tuttavia, nei Balcani, come nel resto del mondo, le questioni legate alla religione si sono evolute, mentre nella retorica sbrigativa e spicciola di alcuni mezzi di informazione, oggi va di moda coniugare la questione balcanica, o meglio la sua idea approssimativa, con la radicalizzazione che si è verificata in altre zona a maggioranza musulmana. Per cui, in un periodo così complesso come quello attuale, in una regione caratterizzata da linee di separazione etnica e religiosa, si acuisce la percezione semplificata dell’avere “il nemico alla porta di casa” (per i più avveduti, addirittura dentro casa).

Simone Benazzo ci spiega che nonostante esista in Bosnia un fenomeno che si può definire di radicalizzazione, essa non è la stessa che si verifica in Siria (e simili).

La guerra non ha lasciato delle ferite solo nella popolazione, ma anche nella costruzione dello Stato soprattutto nella capacità di quest’ultimo di garantire un welfare. La corruzione, la forte decentralizzazione, la divisione della Bosnia in Repubblica Sprska e Repubblica di Bosnia-Erzegovina, sono tutte componenti che complicano la vita dello Stato. Un fenomeno che si traduce in una forte disoccupazione giovanile, una povertà diffusa e di conseguenza in una frustrazione sociale generalizzata. La rete musulmana invece offre tante possibilità, soprattutto in termini economici, non riscontrabili nell’impiego statale. Simone racconta un aneddoto particolarmente esplicativo. Un giorno a Sarajevo, mentre stava facendo un giro gli è capitato di incontrare una coppia di musulmani vestiti secondo l’interpretazione radicale: lui con il copricapo e la barba lunga, lei con il niqab (il velo che lascia scoperti solo gli occhi). Quando i due si sono accorti della presenza di Simone, lei si è sistemata meglio il velo ed entrambi si sono irrigiditi, ma nel momento in cui il loro osservatore si è allontanato (ma solo per spiarli meglio) si sono comportati come una coppia normale, abbracciandosi, facendosi i selfie e…bevendo Coca Cola, uno de simboli della dominazione dell’Occidente e della corruzione della società, per come si interpreta nei circoli più integralisti. Dunque, si capisce bene che la religione, o comunque l’adesione alle forme più estreme della sua interpretazione, non sia che una scusa per ottenere i vantaggi che offre, non tanto una convinzione vera e propria.

Sulla stessa china, si pone l’identità religiosa, infatti dei tratti molto peculiari emergono dal discorso di Simone e Francesca. La comunità musulmana bosniaca vive la definizione della propria identità come un revival storico, una re-islamizzazione, ma che in realtà è un fenomeno più o meno nuovo. La definizione dell’identità religiosa dei bosgnacchi (bosniaci musulmani) è in realtà frutto della diffusione di una necessità di appartenenza scaturito nel momento in cui la stessa comunità musulmana, in virtù della sua religione, della sua diversità, è diventata un bersaglio. Sono dunque emerse delle pratiche sociali derivate dalla religione che erano solo in parte (a volte non lo erano proprio) di uso comune. La scelta del velo è stata salutata dalle donne come una libertà “finalmente” concessa di potersi vestire come le proprie nonne, mentre alle proprie madre era stato vietato. Quelle stesse nonne però non erano solite portare il velo pur essendo musulmane. Un simile processo di islamizzazione superficiale hanno subito altri tratti della società, ma si sono rafforzati solo nel momento in cui chi non vi aderiva poteva essere emarginato. Per evitare, dunque, di essere lasciato ai margini di una società molto spezzettata, era dunque necessario adattarsi e integrarsi anche in assenza di una fede imitando delle pratiche senza conoscerne a fondo il significato, l’origine o il senso ultimo.

Se si collegano questi elementi al quadro internazionale, si capisce perché il numero di foreign fighters dello Stato Islamico (cosiddetto) in provenienza dalla Bosnia sia di gran lunga inferiore rispetto ad altri Stati e al contempo perché si sono verificati degli episodi ambigui che non stati mai veramente rivendicati, come è invece avvenuto altrove. Nonostante la componente musulmana, la Bosnia non fa parte della rete terroristica internazionale, o se vi partecipa non è che una realtà marginale, proprio per la peculiarità dei tratti che distinguono l’identità religiosa nel paese.

Dalla presentazione di Simone e Francesca emerge dunque un quadro nel quale la paura dell’Islam è sicuramente mal riposta, mentre se si amplia il discorso all’identità bosniaca, non solo religiosa, questo assume tutta una serie di tratti relativi che si possono spiegare solo in opposizione a quelle altre identità presenti nelle regioni vicine, come per esempio quella serba o croata. Ma questo discorso sarà per un’altra volta.

Per chi dunque volesse approfondire o affinare le proprie conoscenze, la settimana prossima ci sarà la proiezione del film Welcome to Sarajevo di Michael Winterbottom. Gli ultimi giorni dell’assedio della città di Sarajevo sono raccontati attraverso le vicende dei corrispondenti giornalistici, in quello che si potrebbe dire un duplice film. Da un lato il racconto quasi documentaristico della guerra (il regista ha scelto di girare il film in loco, poco tempo dopo la fine delle ostilità) dovuto alla scelta di montare nella pellicola estratti di dichiarazioni e interviste dei principali capi delle fazioni belligeranti; dall’altro invece la storia personale di uno dei corrispondenti, la storia umana di chi racconta la guerra per lavoro e si trova a incrociare destini e situazioni che vorrebbe cambiare.

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