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“Lo specchio”, di Andrej Tarkovskij – regia all’ennesima potenza

Ieri sera, a Radio Aut, si è tenuto il consueto cineforum organizzato da Birdmen. Per l’0ccasione, la nostra Giorgia ha scelto di presentare il quarto lungometraggio del cineasta russo. Alla luce delle considerazioni fatte dai presenti al termine della proiezione, proviamo ad analizzare alcuni aspetti di questa complessa pellicola.

Approcciarsi a una regia come quella di Tarkovskij ne Lo specchio (1975) è un’operazione di grande difficoltà. Bisogna prendere coscienza del fatto che in questo film non sono solo l’uomo e la macchina da presa ad agire, ma anche la natura, intesa come elementi naturali che paiono imbrigliati e stregati dal regista: il vento tra gli alberi, improvvise folate che scompigliano gli alti fili d’erba verde, gocce d’acqua che spandono una eco imperitura. Parrebbe che l’unica struttura unificante sia l’alternanza tra “bianco e nero” e colori, a scandire le varie linee temporali che sono però totalmente stravolte e compongono una storia di movimento solo immaginato, perché vissuto interiormente, nello specchio della mente. Lirismi potentissimi e non sempre totalmente comprensibili si susseguono, ribadendo la vena poetica di un regista che ha fatto dello slancio visuale la sua cifra stilistica più riconoscibile. Le improvvise simmetrie generate da carrellate simili alle pennellate di un paesaggista generano un ordine davvero spiazzante all’interno di una storia che richiede grande attenzione durante la visione.

Il lungometraggio – come la mente umana – è un organismo vivente dai mille riflessi, uno specchio rotto che si accende e spegne. I ricordi d’infanzia si fondono in una tempesta di emozioni e visioni, di case in rovina e calcinacci che piovono dal soffitto di una casa spettrale. Una madre è trasfigurata nel volto di una moglie, due bambini trascorrono un’infanzia spensierata tra i campi e sono, di nuovo, il riflesso di qualcos’altro. La vita di Tarkovskij è il filo conduttore di un film altamente autobiografico e che torna nuovamente a trattare il tema della gioventù, esperienza formativa, indimenticabile e tragicamente passata, già indagata ne L’infanzia di Ivan (1962) pellicola d’esordio del regista russo.

Lo specchio è un poema di passato e di fuoco, un incendio interiore che colpisce il regista a più riprese e lo costringe a battere in ritirata, sempre più vicino alla sua più intima, fragile natura, alla madre e al padre. Come quest’ultimi, egli sta vivendo – nei panni del suo alter ego cinematografico, Aleksei –  una forte crisi di coppia, e rivede la propria vita attraverso i personaggi, ora impauriti, ora addolorati, entrando addirittura in prima persona nella sua opera, nel momento in cui una panoramica che scorre su una parete ci mostra il poster del film Andrej Rublëv (1966).

Da una parte lo sguardo intimista, dall’altra una riflessione profonda sulla Russia, sulla sua natura indipendente, così diversa dall’europea o dall’asiatica. La corsa in tipografia – per correggere un refuso – trasmette la paura dei tempi di Stalin, che relegò nei campi di concentramento un intero gruppo di tipografi, colpevoli di aver erroneamente stampato “sralin” (“merda”) al posto di “Stalin”. Mente e storia si legano, portando la pellicola su un nuovo livello, uno sguardo dall’iperuranio e giù verso la Russia, il pericolo cinese e il rifugio caldo della casa nel bosco. Un poema moderno che, in quanto tale, non può essere capito in tutte le sue trame, ma che chiede alla mente dello spettatore di entrare in contatto con quella del regista e seguirne i cambi di direzione repentini, spastici, ben richiamati da movimenti di macchina che non sono in grado di stare dietro ai personaggi, di prevederne le azioni. Uomo e regista si scambiano lo scettro del comando, alternando la lirica alla struttura, il fuoco all’acqua, e dal loro scontro esce l’immagine finale di uno specchio, di una continua revisione che moltiplica, nel ricordo, il tempo vissuto.

«Tu che preferiresti? Un maschio o una femmina?»: un fluidissimo dolly ci porta a questa domanda, che innesca una sequenza fortissima, divisa tra presente e futuro, in cui la madre di Aleksei, da giovane, giunge quasi a commuoversi di fronte alla tragica bellezza della vita. Guarda ovunque ma non il marito, guarda anche in camera e poi dalla parte opposta al marito. Guarda prima noi (cioè il regista) e poi guarda un futuro che noi abbiamo già visto.

La scelta di impiegare una sola attrice – la meravigliosa Margarita Terechova – per i personaggi della madre e della moglie di Aleksei, genera un effetto straniante e di continua confusione.  Questo concorre a preparare un’ultima sequenza di grande impatto emotivo, accompagnata, e fortemente caratterizzata, dal coro Herr, unser Herrscher di Bach, apice di una tempesta interiore fatta di premonizioni, di vecchiaia futura e di uno dei più bei primi piani nella storia del Cinema, che fa di Tarkovskij un ritrattista, oltre che regista, ormai alla pari coi grandi del passato, assieme ai quali dialoga, siano essi musicisti, poeti o grandi pittori.

Come Leonardo da Vinci e Bruegel il Vecchio, dunque, il regista russo è parte di un olimpo, dialoga coi suoi pari e attraversa una crisi interiore che non è, però, debolezza, ma tratto distintivo di tutti quegli spiriti magni che, fortificati dai travagli dell’esistenza, hanno fatto grande la nostra storia.

Tutta l’umanità, in fin dei conti, può vedersi riflessa ne Lo specchio.

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