I forestierismi? Sparategli a vista!
di Francesco Iacona
Ormai sono diventati parte del linguaggio comune: quasi tutti li usiamo (spesso a sproposito), li leggiamo sui giornali, sul web e negli slogan pubblicitari. Di cosa stiamo parlando? Dei forestierismi, ovvero di quelle parole prese in prestito dalle lingue straniere (soprattutto dall’inglese) e ormai facenti parte del lessico italiano.
O meglio, ci sono alcuni di questi termini che sono entrati a pieno diritto nel nostro lessico: sono i forestierismi di necessità, ossia quelle parole straniere che servono per denominare referenti d’origine straniera in precedenza sconosciuti e perciò senza traduzione, cioè senza un sinonimo in lingua italiana. Basti pensare a parole come hot dog, juke-box, kebab, strudel, tsunami, sudoku, kamikaze, modem, browser, dribbling, pressing, jeans, marketing, rock, pop, rap, moquette, parquet, ecc…
Poi ci sono i forestierismi di lusso, i quali, di fatto, sono superflui poiché esiste già nella nostra lingua un termine col medesimo significato; generalmente sono usati per ragioni di moda o di uso comune, per abitudine o semplicemente perché usarli, rende colti all’apparenza.
Per carità, non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. Ormai ci sono termini stranieri entrati talmente nell’uso collettivo che di fatto si sono italianizzati a tutti gli effetti e i loro corrispettivi italiani ormai sono degli arcaismi (cioè parole ormai in disuso). Infatti, al giorno d’oggi sarebbe impensabile – o quasi – dire calcolatore anziché computer, pellicola invece di film, posta elettronica al posto di e-mail, libro elettronico in luogo di e-book, basket per pallacanestro, stage piuttosto di tirocinio, show invece di spettacolo… giusto per fare degli esempi. E bisogna anche evitare traduzioni forzate o grottesche come fusopatia al posto di jat lag o ora felice anzi di happy our (che molti confondono con l’aperitivo, ma sono cose diverse).
Si evince, perciò, che è normale che una lingua sia contagiata in qualche modo da un idioma straniero e soprattutto dall’inglese, ormai esportato in tutto il mondo. Però non bisogna esagerare. Come dice il giornalista Beppe Severgnini nel suo libro “L’italiano, lezioni semiserie”: «L’inglese è formidabile, ma è un’altra lingua»; egli, inoltre, aggiunge: «Quando scriviamo in italiano, dobbiamo cercare di usare parole italiane. Non si tratta di atteggiarsi a puristi: le lingue sono per natura impure e prosperano grazie a continue mutazioni e trasfusioni. Si tratta di non diventare pigri, prevedibili o – peggio – ridicoli». E il buon Severgnini ha assolutamente ragione: a volte si diventa un po’ ridicoli a voler fare i fighi facendo finta di sapere l’inglese (o altre lingue), inserendo in un discorso in italiano termini dalla difficile comprensione solo perché usare la parola inglese è più trendy [ecco, ci sono cascato pure io; vedete?].
In molti ambiti lavorativi (soprattutto quelli economico-finanziari o quelli legati alla comunicazione) i forestierismi sono diventati dei veri e propri termini tecnici o gergali, dei quali però spesso si può benissimo fare a meno poiché facilmente traducibili in italiano. Facciamo degli esempi:
brand = marchio
business plan = piano economico
buyer = compratore
brainstorming = scambio di idee
competitor = concorrente
consumer = consumatore
delivery = consegna
meeting = riunione, incontro
briefing = vedi meeting
know-how = insieme di competenze
human resources = risorse umane
policy = politica aziendale
showroom = sala esposizioni
trend = tendenza
workshop = laboratorio
welfare state = stato sociale
planning = piano, strategia
news = notizia
mission = missione, obiettivo
manager = dirigente
team = squadra
ceo (Chief Executive Officer) = a.d. (amministratore delegato)
… Insomma, chi più ne ha più ne metta.
E inoltre ci si mettono anche giornali e i telegiornali a bombardarci con termini quali, ad esempio: election day (giorno delle elezioni), authority (autorità), welfare (interventi sociali), serial killer (assassino seriale), task force (unità di pronto intervento) o il complicatissimo devolution, il cui significato in italiano è sicuramente complesso (cessione di poteri o di autorità da parte di un ente o di organo superiore o centrale – come lo Stato – a uno inferiore o periferico – come le Regioni) ma del quale non sarebbe male se si coniasse un sinonimo italiano un po’ più semplice. Inoltre, in questi giorni vanno veramente di moda due termini di origine inglese: lo spread (effettivamente difficile da tradurre), ma soprattutto la spending review, termine evitabilissimo e facilmente sostituibile con revisione della spesa pubblica, sicuramente più alla portata di tutti.
Inoltre, bisogna stare attenti ai “falsi forestierismi”. Un esempio su tutti: il termine mass media, sinonimo di mezzo di comunicazione di massa. La sua origine da molti è considerata come proveniente dalla lingua inglese, motivo per cui tale parola spesso – erroneamente – viene pronunciata “mass midia”. Ma in realtà l’origine è latina, non inglese, e perciò la pronuncia corretta è proprio come si legge: “mass media”.
Detto ciò, lo scopo di questo discorso non è certo quello di fare una noiosissima predica. Ovviamente uno alla fine parla come preferisce. Però è anche giusto parlare (o scrivere) in modo tale da essere compresi da chi ascolta (o legge), poiché non si può pretendere che tutti conoscono a menadito lingue straniere o linguaggi tecnici. Quando si comunica un messaggio – e in particolare quando ci si rivolge a una moltitudine di fruitori – è importante usare un linguaggio semplice e alla portata di tutti.
Inoltre, è anche importante difendere una lingua bella come l’italiano da contaminazioni superflue.