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Fino all’ultimo respiro

di Camilla Maccaferri

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In questi giorni terribili e assurdi mi torna spesso in mente una scena di uno dei miei film preferiti, Edward Mani di Forbice, di Tim Burton.L’inventore ha preparato delle mani vere per Edward e si appresta a montargliele, per trasformarlo da ibrido uomo-macchina in vero essere umano, così che possa uscire dal laboratorio e iniziare a vivere. Ma d’improvviso l’inventore si accascia a terra, le mani vengono trafitte dalle lame della sua creatura ed Edward rimane nel limbo tra organico e inorganico: non potrà più camminare nel mondo senza essere bollato come un freak, affascinante ma pericoloso e comunque per sempre diverso.La stessa cosa è accaduta a me e ai miei compagni: proprio quando stavamo concludendo il nostro percorso universitario e quando più avremmo avuto bisogno di una guida per capire cosa fare delle nostre vite, siamo rimasti mutilati. Ma per quanto vuoti e straniti ci sentiamo, è nostro dovere uscire e cercare di portare avanti l’insegnamento, umano e accademico, che il prof. Buccheri ci ha dato, anche se ci ha lasciati incompleti, mezzi adolescenti e mezzi uomini, forse non ancora pronti a camminare nel mondo.Per ricordarlo, la cosa migliore da fare è costruire un film della memoria, seguendo i consigli del suo manuale, e continuare a riguardarlo finché ci sembrerà di essere un po’ meno storditi, finché ci sembrerà un po’ più vicino.Il prof. Buccheri non si è limitato a insegnare cinema: ha insegnato che cos’è il cinema, alfabetizzando centinaia di studenti che avevano solo una vaga idea dei blockbuster passati nei multisala, prima che le sue lezioni li costringessero a confrontarsi con Ottobre di Eisenstein, anche se rigorosamente con l’avanti veloce. È stato l’unico professore a chiederci di compilare un questionario sui nostri gusti cinematografici: invece di sproloquiare per ore su ciò che interessava a lui, ha voluto sapere cosa piaceva a noi.Per gli studenti di cinema, poi, non poteva che essere un punto di riferimento: tutti noi piccoli nerd con l’ossessione per il grande schermo ci ritrovavamo in lui e ci identificavamo nella sua figura tragicomica di ricercatore appassionato costretto in un mondo emotivamente analfabeta: pensavamo che alla nostra età magari anche lui aveva sognato di farlo, il cinema, e poi si era ritrovato dall’altra parte. Un po’ ci faceva paura l’idea di rinunciare ai nostri sogni, un po’ lo invidiavamo, perché poteva comunque occuparsi quotidianamente, e lo faceva in maniera egregia, di quello che amava di più. Spesso scherzavamo sulle sue passioni, i Coen, Takeshi Kitano, la nouvelle vague, e sulle sue idiosincrasie, Lars Von Trier, Stefano Accorsi.Lui, che una volta aveva descritto la sua vita come un film di Jacques Tati, a noi sembrava un Buster Keaton, eternamente di corsa, con lo zainetto sulle spalle, l’espressione seria, quasi immutabile, preso da mille impegni e sempre mortificato quando, inevitabilmente, si dimenticava qualcosa.Senza magari rendersene conto, il prof. Buccheri ha fatto un enorme regalo a me e agli altri aspiranti critici o cineasti: ci ha insegnato a credere nella bellezza dell’arte e dei nostri sogni, a dispetto del precariato, della crisi economica, di quelli che ci guardano con compassione, pensando al nostro futuro di disoccupazione, di quelli che ci dicono: “se avessi fatto ingegneria, a quest’ora lavoreresti già”. Perché sentirsi dire da uno come lui, che scriveva su Segnocinema, collaborava con Il Mereghetti e aveva vinto il premio Ferrero a ventidue anni, che una scena del nostro corto gli ricordava la magia di Tim Burton, per noi, sceneggiatrici e registe alle primissime armi, è stato come vincere un Grammy.In un saggio di Horkheimer e Adorno che avevo studiato per un suo esame c’era scritto che l’arte, anche se merce, deve garantire l’inutile nel regno dell’utilità: così, grazie all’insegnamento del prof. Buccheri, abbiamo deciso di farci garanti di questa inutilità e andiamo avanti testardi, contro ogni tendenza socioeconomica, a guardare i film, a parlarne, a scriverne, a farli. Perché i sogni, siano di celluloide o di altri materiali, sono le uniche armi che abbiamo per combattere contro l’inaridimento, la schizofrenia emozionale, l’incapacità di relazionarsi, per sopravvivere in quest’epoca dove il confine tra comunicazione reale e virtuale, tra rapporti veri e squallidi surrogati, è, più che ambiguo, ormai invisibile.E a chi ci ha insegnato a costruirli, a coltivarli, a viverli, non può che andare il nostro più grande e più sincero ringraziamento, con la promessa di non dimenticare: fino all’ultimo respiro.

5 pensieri riguardo “Fino all’ultimo respiro

  • Barbara Bergami

    Una bellissima riflessione. Conoscevo il prof. Buccheri solo di vista: non ho mai seguito i suoi corsi, nè letto un suo libro o articolo, ho solo avuto la fortuna di seguire una sua lezione, quasi per caso. Eppure la notizia della sua morte mi ha toccato nel profondo, lasciandomi incredula. Come insegnante però, e soprattutto come ex studentessa di Lettere, mi sono riconosciuta molto nelle tue parole, “credere nella bellezza dell’arte”, a dispetto di tutto, anche di un mondo in cui battersi per questo valore, sapendo di perdere, sembra pura follia. Così, da profana del cinema, se me lo consenti, azzardo anch’io una citazione, a me molto cara: “io nn so dove vanno le persone quando muoiono- dice Castellitto in Non ti Muovere- ma so dove restano”…restano nelle persone che hanno conosciuto, nelle idee che hanno coltivato, negli studenti che hanno amato.

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  • Leggo solo oggi, quasi per caso, navigando in Intenet, il nome di Vincenzo Buccheri e mi ricordo un giovane studente di Lettere moderne dalla Cattolica di Milano, appassionato di cinema, che si apprestava a recarsi a Venezia per il Festival del Cinema. Era estate, c’era il sole nel chistro dell’Università. Ci siamo incontrati perchè gli dovevo prestare i miei appunti, non ricordo più se di Italiano o di Estetica o entrambi… Me li riportò dopo alcuni mesi. Ricordo una persona particolare, che ho rivisto nella descrizione “a noi sembrava un Buster Keaton, eternamente di corsa, con lo zainetto sulle spalle, l’espressione seria, quasi immutabile, preso da mille impegni e sempre mortificato quando, inevitabilmente, si dimenticava qualcosa…”. Allora, da studente, mi sembrava timido, un pò chiuso, molto dolce, su un altro pianeta, in un altro mondo, il suo, quello della cinema e della passione. Lo ammiravo per questa passione tenace e seria. L’ho perso di vista prima della Laurea perchè abbiamo seguito indirizzi diversi: io lettere classiche e lui il cinema. Alcune volte ho pensato a lui, ma non avrei mai immaginato di ritrovalo così. Ciao Vincenzo.

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  • ciao Vincenzo, non ho fatto in tempo a conoscerti personalmente per ringraziarti.
    non so se eri a conoscenza del lavoro che, insieme ai miei compagni di viaggio, sono riuscito a realizzare, anche grazie alle lettura del tuo bellissimo testo su Takeshi Kitano.
    forse ne eri a conoscenza, forse hai sorriso leggendo delle gesta di questi folli che hanno fatto della passione per il cinema, se non la loro vita almeno la loro ragione di vita.

    avrei tante altre cose da dire, ma in questo momento mi scuserai se ti dico solo Grazie.
    mario

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  • Marcello

    Vincenzo Buccheri. Ho saputo solo adesso, per caso, della sua scomparsa. Non sono nessuno, solo un appassionato di cinema. Avevo visto i suoi corti al Sacher Festival, facevo parte della giuria popolare e li avevo votati. Forse potrei aiutarvi a recuperarli.

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  • cristina

    Addio Prof, sono passati tanti anni dal nostro primo incontro, dall’esame, dal trasferimento. Hai cambiato tante università, hai incontrato tanti studenti e sembra che tutti portino dietro il tuo ricordo. Hai lasciato un segno in tutti noi. Ottimo lavoro.

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