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Dostoevskij da ridere: “Collaborators”

Per la seconda volta nell’arco di un mese, il Teatro Fraschini di Pavia propone uno spaccato di storia novecentesca filtrato attraverso occhi britannici. All’ultimo giro è toccato a Michael Frayn con Copenhagen, ora è il turno di John Hodge (sceneggiatore di Trainspotting, Danny Boyle, 1996) con Collaborators, ambientato nell’Unione Sovietica del ’39: gigante invernale con alla testa il regime totalitario di Iosif Vissarionovič Džugašvili “Stalin”, nonché terreno accidentato per uno scrittore di idee rivoluzionarie come Michail Bulgakov. A condurre la vicenda russa, fotografata da un inglese, su un palcoscenico pavese – in un evidente eccesso di globalizzazione – è la crew del milanese Teatro Filodrammatici, capitanata dal duo Amadio-Fornasari.

Bulgakov, romanziere e drammaturgo tra i massimi della letteratura russa, e Stalin, signore indiscusso dell’URSS per quasi trent’anni. L’intellettuale e il tiranno: due funzioni, due nemesi giurate, due volti storici che risultano aver realmente intrattenuto dei rapporti; nonostante la strenua ostilità del primo a tutto ciò che il secondo rappresentava. In ultimo i protagonisti della vicenda fittizia di Hodge, tradotta e diretta da Bruno Fornasari. Una commedia che, esagerando con apparente spensieratezza le relazioni tra i due, ragiona sul fascino del potere, sulla distanza che corre tra intenzioni e fatti, sulla difficile aderenza ai propri ideali contro ogni avversità.

Collaborators 3

Quella di Collaborators è una Russia da camera sobriamente ma funzionalmente allestita, contesa tra fasti intellettuali e miseria popolare, dove l’ironia sopravvive ai disagi economici e al peso del regime. Scrittori invisi alla censura, proprietari terrieri squattrinati, operai fiduciosi in un’utopia comunista, agenti del KGB dal sagace aplomb di cattivi: questi e altri personaggi affollano la rappresentazione; sagome di una Russia sovietica che attraverso di loro rivive sul palcoscenico. O, perché no, in mezzo al pubblico, aggirandosi per la platea e comparendo inaspettata dagli angoli più remoti, in un teatro che rifiuta di limitarsi alla sua sede privilegiata.

A tali figure di semplice costume gli interpreti conferiscono volume, spingendole al superamento di parvenze bidimensionali. I dispensatori di gag, le vittime e i carnefici si sbarazzano egualmente delle loro maschere stereotipiche e imboccano a testa alta strade individuali: vicoli moscoviti che, allo spegnersi delle risate, si rivelano spesso percorsi di morte verso patiboli ricoperti di tela cerata.

Risulta degna di nota, in particolare, la decostruzione dell’intellettuale indefesso come la vediamo presentata dal Bulgakov di Tommaso Amadio: artista sproporzionatamente piccolo rispetto alla mole delle sue convinzioni; a loro volta vulnerabili alle lusinghe della fama, della pancia piena e di un potere che, quando lo eserciti di persona, sembra sempre più giustificabile.[1]

Meritevolissimo, poi, il disegno delle luci di Fabrizio Visconti, che con filtri soffusi e poco invasivi riesce ad alterare radicalmente la scenografia di Erika Carretta, restituendola rifranta nella miriade di scenari necessari alla rappresentazione.

Bulgakov venera Molière: quel Molière che, nel testo del russo e nel macabro splendore di una stanza affollata di medici mascherati[2], termina una vita passata a osteggiare, con la sua Arte, un Potere oppressivo.

Michail potrà dire altrettanto?

Scopritelo con Collaborators.[3]

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[1] Personaggio di cui, forse, si può scorgere un moderno corrispettivo nel protagonista di La scuola delle scimmie: altra produzione Filodrammatica che, per l’eletta schiera degli studenti pavesi, era disponibile a un prezzo di favore.

[2] Scena a mio parere dotata di uno strepitoso impatto visivo: ed equiparabile in tutto e per tutto a una rappresentazione pittorica del periodo (di Molière, non di Bulgakov).

[3] Le bellissime fotografie di scena utilizzate nell’articolo sono tutte opera di Rosalba Amorelli.

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