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Sinestesia suadente: “La terra desolata” allo Spazio DiLà

For Ezra Pound:

il miglior fabbro.

Thomas Stearns Eliot, dedica iniziale di La terra desolata, 1922. [1]

Come si traspone sul palcoscenico un poema monumentale, ermetico e apparentemente privo di unitarietà diegetica e tematica: in più mondane parole, un testo di cui non si capisce un c***o?

È così che, a una prima e superficiale occhiata, si presenta La terra desolata, poema dell’inglese Thomas Stearns Eliot e cardine della poesia novecentesca globale. Un’opera che costituisce un collasso di mondi diversi, un cortocircuito di citazioni e di riferimenti: l’occidente allegorico del ciclo arturiano (regno/corpo morente dell’afflitto Re Pescatore, terra desolata a cui l’opera deve il suo nome); il mito classico di Tiresia ermafrodito strappato alla sua epoca; i fulminei affreschi di una modernità segmentata in quadretti tragicomici. [2] Un caleidoscopio di culture, riferimenti e soggettività dove senza soluzione di continuità si affastellano inglese, tedesco, sanscrito (!). Quella di Eliot è, invero, una Babele unificata sotto la lingua franca della poesia.

terra desolata 27Ed è proprio questo testo [3] che, nei weekend del 17-18 marzo e poi del 24-25 (siete ancora in tempo!), l’associazione Granchio propone sul palcoscenico dello Spazio DiLà: accettando, sotto tutti gli aspetti, una sfida non da poco.

Una scelta tanto coraggiosa, d’altra parte, ci permette di rispondere alla paventata domanda di prima.

La risposta? La terra desolata si traspone così, sul palcoscenico.

Con uno spettacolo che, nell’ora scarsa della sua esecuzione, raccoglie con sapienza le direttrici centrifughe del poema, filtrandole magistralmente attraverso gli strumenti del teatro: voce, azione, scenografia. Un testo dispersivo e frammentario, canalizzato attraverso una resa scenica unitaria e coerente tramite l’abilità dei suoi interpreti. Danza e dizione concorrono a delineare l’insieme sfaccettato della sostanza teatrale, intersecandosi e mischiandosi come del resto fanno gli attori: professionisti della parola (Claudio Gaj e Francesco Tornar) e del movimento (Cristina Spinetti) si incontrano nei rispettivi campi d’esperienza, si danno il cambio, sconfinano in quello altrui. Con i loro corpi e le loro voci conferiscono sostanza alla cascata di immagini riversata lungo le cinque “stanze” dell’opera, assurda sinfonia nelle cui note scorre tutto lo scibile di un’epoca.

terra desolata 56L’azione si fa parola, la voce si fa corpo. Ed entrambe sono parte di una sinestesia scenica stagliata su un fondale bianco animato da proiezioni, su una scenografia processuale alterata dai suoi interpreti con rituale lentezza. Infine su un sostrato sonoro [4] che, composto sulla base inalienabile di canti di balena, richiama panorami profondi, fragili, maestosi.

La terra desolata dei Granchi, proprio come la sua fonte scritta, non è per tutti. Esattamente come il testo di Elliot, tuttavia, resta un’occasione unica per immergersi in un universo altro: un universo di delicata, viscerale e irriverente poesia, costruito sulle immagini rifrante di un immaginario comune al nostro.

È più veloce che leggersi il libro, oltretutto.

Affrettatevi numerosi: il DiLà si riempie in fretta.

POST SCRIPTUM:

alla prima di questo spettacolo – recitato in italiano, ricordiamolo – c’erano più americani che in un Paese mediorientale ricco di petrolio.

Poesia e teatro, forse, sono realmente lingue franche globali.

terra desolata 14_____________________________

[1] L’espressione è ripresa inalterata dalla Divina Commedia, Purgatorio XXVI, v. 17.

[2] Forse familiare ai “Granchi” per il loro lavoro sulla Cantautrice calva di Eugène Ionesco, risalente a un paio di anni fa: ché di istantanei ritratti di una borghesia decadente si parla in entrambi i casi.

[3] Sfruttato tramite la giustapposizione di traduzioni italiani diverse.

[4] O tappeto sonoro, termine tecnico specifico.

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