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Questioni di vita o di morte

Teli bianchi che tagliano la superficie scura del palcoscenico: sono linee direttive per i corpi degli attori che le usano per cercarsi, per toccarsi, per costruire una vita prima e una vita dopo la tragedia.

Fisico, sempre fisicissimo il teatro di Cesar Brie. Per il regista e attore argentino che ha fatto del palcoscenico la sua patria di esiliato, il teatro rimane sempre politico – nella sua accezione etimologica e sociale – e il corpo non è il suo strumento ma il suo campo di battaglia.

Tanto più vero per la produzione di Eco di Fondo che porta il testo di Brie sul palco dell’Elfo Puccini. Ispirato alla vicenda di Eluana Englaro, di cui ricalca modalità e tempistiche, Orfeo e Euridice è una favola moderna in cui i due sposi si chiamano Giulia e Giacomo e l’Inferno dei non morti è la sala spoglia della terapia intensiva. Orfeo non canta ma urla: questa Euridice non può tornare indietro e quindi va lasciata andare. La morte è un dono, è una promessa fatta guardandosi dritti negli occhi.

Le battaglie legali e la routine dello stare insieme da due parti diverse dell’esistenza si alternano ai dati in uno spettacolo che – oltre che emotivamente coinvolgente – è anche dichiaratamente didattico. E forse è proprio questo il suo limite più grande.

Non la recitazione – controllata e adatta – di Giacomo Ferraù e Giulia Viana, e nemmeno la narrazione quotidiana e a tratti sdolcinata della vita di coppia, sebbene l’esplicitazione delle volontà della protagonista poco prima dell’incidente che la scaraventerà in stato vegetativo risolva con un espediente fin troppo didascalico i dubbi che avrebbero potuto attanagliare la coscienza di un marito messo di fronte alla scelta di staccare o meno la spina che tiene in vita la moglie. Il vero limite di questo favola più che mai contemporanea, è l’impatto emotivo che scaraventa sullo spettatore.

Al riaccendersi delle luci sento nasi che cercano di arginare lo scroscio di pianto e mani che frugano freneticamente nelle borse, alla ricerca di un ipotetico fazzoletto. Per quanto mi riguarda, il mascara ha scavato solchi neri fin sotto il mento.

Mi sono immersa nella storia d’amore di Giacomo e Giulia, ho gioito per il loro matrimonio, ho pianto di fronte all’impotenza di un Orfeo senza voce che per diciassette anni si prende cura del corpo muto e sordo della sua Euridice. E quando finalmente l’ha potuta lasciar andare, è stata una vittoria anche per me. Non in nome di un ideale o di una convinzione, ma perché quella storia la stavo vivendo anche io, dall’interno.

Non che questo sia generalmente un male, ma dato l’intento esplicitamente didascalico e morale dello spettacolo, come chiedermi di elaborare un parere oggettivo nonostante il mio coinvolgimento?

Se Giacomo, nonostante la promessa fatta a Giulia, non fosse riuscito a staccare quella spina? Se non si fosse sentito abbastanza forte per decidere la morte di quel corpo che – almeno clinicamente – era ancora vivo, che – almeno clinicamente – era ancora il corpo di sua moglie? Se avesse continuato a curarla, a vestirla, a lavarla ogni giorno fino alla morte biologica delle sue membra, non l’avrei compreso? Non l’avrei giustificato?

Certo. Certo che lo avrei fatto. Perché alla base dell’empatia sta un’umanità senza facili soluzioni, in cui non esistono nette distinzioni fra il bianco e il nero, nemmeno quando si parla di morte.

Quindi? Avrei preferito uno straniamento brechtiano per poter riflettere meglio sul destino di Giulia? Forse sì. Ma in questa favola al limitare della vita Euridice rimane di carne, la morale si incastra senza armonia nelle crepe dell’esistenza e se Orfeo si gira lo fa piangendo: Brie non permette un approccio spassionato perché, in questa situazione, un giudizio senza coinvolgimento emotivo sarebbe una menzogna.

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