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Sette anni di Instagram

Instagram ha compiuto sette anni lo scorso ottobre.

L’applicazione, sviluppata da Kevin Systrom e Mike Krieger, ha avuto un immediato successo: un milione di iscritti i primi due mesi, per arrivare a 700 milioni di utenti attivi registrati questo aprile 2017, la cui maggioranza è femminile [Wikipedia]. Il nome è una fusione di instant camera e telegram e, a differenza di Facebook e Twitter, è un social network pensato principalmente per la condivisione delle fotografie scattate dal cellulare.

In questi sette anni si è evoluto e modificato. Inizialmente presentava le foto nostalgicamente nel format delle vecchie polaroid, in formato quadrato e con gli spazi bianchi nei bordi superiore e inferiore. Dopo aver introdotto nuovi filtri e i video, dal 2015 le dimensioni delle foto sono aumentate. La versione di oggi sfrutta gli hashtag per espandere la rete, ha la sezione esplora, le storie, la diretta. Il profilo Instagram potrebbe per molti, al pari di Facebook, esser considerato una parte di identità: dal soggetto scelto, dal filtro che usiamo, dal numero di foto e di seguaci e seguiti, si può capire molto di una persona. Per certi mestieri è diventato uno strumento indispensabile, da chi si occupa di marketing, pubblicità e ristorazione a chi fa parte del mondo dello spettacolo e della moda.

Da tempo ormai gli psicologi e in generale gli studiosi di scienze umane si interessano a queste nuove forme di comunicazione. Le posizioni decisamente a favore di questo strumento mettono in luce la sua originalità rispetto agli altri social network, le altre che lo osservano con uno sguardo più critico manifestano una preoccupazione per un suo uso eccessivo, che potrebbe modificare non necessariamente in meglio le relazioni interpersonali. Questo anniversario è stato l’occasione per me di confrontarmi criticamente, da utente, con queste interpretazioni.

Siamo dipendenti da Instagram? Quanto tempo passiamo a scegliere il filtro del nostro selfie da condividere? Quali sono le ragioni e i meccanismi che ci portano a volte ad abusare di Instagram?

Lo psicologo Adam Adler presenta i dati relativi alle media dei tempi delle attività nelle quali si suddivide una nostra giornata, nel 2007, nel 2015 e nel 2017. Oltre a dormire, lavorare e al tempo per attività come mangiare e lavarsi, lo spazio dedicato al tempo libero appare oggi quasi completamente assorbito dall’uso degli schermi. Secondo Adler, ciò che manca per tenere sotto controllo l’uso di queste nuove tecnologie, è il momento dello stop, della fine dell’attività. Un giornale, un libro, un programma tv, ha dei segnali che ci spingono a fermarci o a cambiare. Instagram non ha un segnale di stop, il suo gioco di rimandi continui, di aggiornamento e la facilità e l’immediatezza dei contenuti abbatte ogni tipo di restrizione.

Sherry Turkle, psicologa e professoressa in Scienze sociali e Scienze e Tecnologie al MIT (Massachussetts Institute of Tecnology) trasforma il cogito ergo sum in “Condivido, dunque sono”. Le nuove tecnologie sembrerebbero modificare il nostro modo di pensare a noi stessi e dare una soluzione semplice, immediata e veloce al nostro senso di solitudine. Se ci connettiamo, siamo meno soli, se condividiamo, facciamo sapere che esistiamo (Psicologia contemporanea, NOVEMBRE-DICEMBRE 2015, N. 252).

Instagram è il social delle immagini. Cosa dire quindi del selfie? Perché ne vengono fatti così tanti? Giuseppe Riva, professore ordinario di Psicologia della comunicazione all’Università Cattolica di Milano, risponde che il selfie potrebbe essere considerato “una versione moderna del ritratto pittorico”, perché hanno lo stesso obiettivo: “generare rispetto ed emulazione in chi li guarderà”. Non basta questo però a spiegare l’utilizzo sfrenato di questo nuovo autoscatto condiviso con il mondo. Il selfie nascerebbe dal bisogno di capire chi siamo, di mostrare quello che immaginiamo di essere, di renderlo possibile e conseguentemente di convincere gli altri utenti: “[…] attraverso i selfie degli altri, posso vedere quali sono i mondi possibili e decidere chi voglio essere e cosa voglio fare.” [Psicologia contemporanea, MAGGIO-GIUGNO 2017, N. 261].

Instagram è utile per rimanere in contatto con chi è lontano, per fermare in immagine ciò che viviamo e per poter ricostruire, scorrendo il nostro profilo, i momenti e i periodi della nostra vita che abbiamo condiviso. Non si tratta di prendere una posizione pro o contro, ma di acquisire la consapevolezza necessaria dei rischi di un uso smodato e acritico di questo e di tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione. Dobbiamo essere noi i protagonisti dell’uso del nostro tempo, dobbiamo essere liberi di “spegnere”.

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