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“L’ombra del dubbio” (1943), di Alfred Hitchcock

È il 1943 e Alfred Hitchcock si è da poco trasferito negli USA, dando inizio al filone più maturo della sua produzione, il cosiddetto periodo americano. Si dedica a L‘ombra del dubbio dopo che la sua fantasia era stata stuzzicata dal soggetto propostogli dal romanziere Gordon Mac Donnell. Affidata dunque la sceneggiatura ad un variegato pool di sceneggiatori d’eccezione capitanato dallo scrittore tre volte Premio Pulitzer Thornton Wilder in cui trova posto anche Alma Reville, moglie di Hitchcock, il cineasta londinese dà sfogo alla poetica i cui abbozzati germogli si intuivano ne Il sospetto del 1941. Realizza in questo modo uno dei suoi lavori più riusciti degli anni quaranta, che lui stesso arriverà a prediligere a tal punto da definire come suo miglior film. Bisogna però ammettere che Shadow of a doubt non è tecnicamente paragonabile ai grandi capolavori dei decenni successivi, né per ciò che riguarda la regia né sotto l’aspetto narrativo. Si ha l’impressione sia in qualche modo incompleto o inesatto, ma è forse in questa sua imperfezione a risiedere il suo fascino. Le soluzioni dell’Hitchcock touch qui non producono lo stesso effetto drammatico che creano in altre pellicole, sono un po’ fiacche, intorpidite, e sebbene la mano del maestro del brivido sia evidente e inconfondibile, la sua impronta qui è meno calcata e quasi sommessa, a partire da una trama piuttosto fuori dal coro per la sua produzione: al centro non vi è, come ci ha abituati il buon Alfred, un innocente ingiustamente accusato e infine riabilitato, ma il suo perfetto antipode, un colpevole insospettato che salva la propria reputazione. Il film però giova anche di momenti eccelsi: il prologo di un’essenzialità magistrale, l’arrivo del treno alla stazione di Santa Rosa, il dialogo notturno fra Charlie e Charlotte e infine il lapidario finale. Sequenze impeccabili e fin superbe che riscattano i peccatucci di sceneggiatura, a volte banalotta e a volte lacunosa. Forse troppo insistita e dal patetismo eccessivo in molte sequenze la colonna sonora, nemmeno troppo ispirata.

Protagonista è senza dubbio il legame che intercorre tra la zio Charlie e l’omonima nipote, in equilibrio precario tra l’affettivo, il platonico e perfino il sessuale, un legame che rappresenta il punto nodale della storia. La trama mette poi il ricorrere di un concetto sui cui il film si fonda: la coincidenza. La pellicola pullula di coincidenze, dal lampante motivetto de Il valzer della vedova allegra che Charlotte continua a canticchiarsi all’ammiccante travestimento dei poliziotti in delegati del governo che vanno redigendo un dossier sulle famiglie tipo americane, mentre i Newton si riveleranno tutto tranne che famiglia tipo. Il peso della coincidenza e la funzione determinante che svolge nella vicenda eludono l’ipotesi si tratti di un semplice espediente volto a dare un’origine al sospetto di Charlotte nei confronti dello zio.1

L’ombra del dubbio viene quindi proiettato attraverso gli occhi della protagonista e il dubbio che nasce dalla diffidenza della nipote verso lo strano atteggiamento di Charlie cresce nella suggestiva scena della biblioteca per poi raggiungere il suo culmine nella lotta interiore della scelta fra la denuncia e il silenzio e trova la sua naturale conclusione nel rancore provato verso chi ha rotto l’equilibrio della famiglia.

Hitchcock si avvale di un cast che mette qui in scena tra le proprie migliori interpretazioni: Teresa Wright offre uno dei più iconici ritratti della tipica ragazza americana, mentre Joseph Cotten (che ritroveremo ne Il peccato di Lady Considine) è ai suoi vertici espressivi e dipinge un personaggio ambiguo, diabolico eppur magnetico, modello a suo modo di tante figure del Cinema moderno e postmoderno. Lo zio Charlie, una sagoma fascinosa ed inquietante che aveva pochi rivali nel Cinema dell’epoca, si basa su E. Nelson, uno fra i più celebri strangolatori della storia americana, che ha svolto la sua attività durante gli anni ’20. Disarmante, purtroppo, lo scarso doppiaggio della versione italiana, che deturpa alquanto il film e non si limita a ridimensionare le ottime performances attoriali ma arriva ad appiattire alcuni personaggi e rendere fin odiosi altri. Si consiglia dunque la visione in lingua originale, sebbene la pronuncia americana degli anni ’50 non sia delle più comprensibili ad un orecchio non avvezzo.

3A creare una contrapposizione involontaria ma piacevolmente e tragicamente ironica vediamo, da un lato, l’interesse per la cronaca nera e il delitto perfetto nelle speculazioni fra mr Newton e l’amico Herbie Hawkins e, dall’altro, la fisionomia psicologica dell’omicida, che non uccide per diletto né per avidità, bensì spinto da una ferma convinzione ideologica, la cui ricostruzione Hitchcock affida sapientemente alle parole della sorella. Questa contrapposizione rientra nella più vasta tematica del doppio, materia di ampio respiro in tutta la produzione di Hitchcock che in particolare ne sviluppa la declinazione della doppia personalità in Delitto per Delitto, Psycho e Vertigo. Ma il doppio in Shadow of a Doubt è ovunque e si concretizza nella presenza di doppie scene: due in chiesa, due alla stazione, due con tentativi di omicidio. E doppio è anche il sospettato, due i poliziotti, due i pranzi.

Un capolavoro di Hitchcock ingiustamente meno noto, molto interessante ed avvincente. L’ombra del dubbio non delude, anzi, forse stimola l’interesse alla visione di altre pellicole del maestro del brivido nel contesto degli anni ’40.

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