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5 film fanno primavera?

Sono uscite le candidature per i David di Donatello 2024. La premiazione della sessantanovesima edizione degli “Oscar italiani” si terrà il 3 maggio a Roma. Si delinea un quadro felice: guardando alla categoria “miglior film”, quest’anno, siamo spinti a fare una considerazione sul cinema italiano.

De gustibus non est disputandum: a volte è la banalità espressa con un latinismo, altre, è la scusa per tirarsi fuori da una discussione, perché non c’è più voglia di dialogare. Non è l’aforisma del giorno, ma in questo caso la locuzione ci serve per una premessa importante: quando si parla di film, di opere d’arte, o di arte in generale, dovremmo essere tutti consapevoli che i premi, per quanto prestigiosi, non siano dei reali attestati di qualità, perché il valore oggettivo in termini assoluti forse non esiste, o quantomeno è molto difficile identificare un vincitore. Un esempio lampante di come gli Oscar falliscono spesso in questo: l’Academy tributò ad Ennio Morricone un Oscar alla carriera, vero, ma il maestro compose oltre quattrocento colonne sonore e vinse una sola e unica volta (nel 2016) per quella categoria; la maggior parte dei suoi capolavori (le memorabili musiche per C’era una volta in America di Leone, o per Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore, solo per menzionarne due) non furono nemmeno candidati. E di “ingiustizie” come queste si potrebbero riempire pagine e pagine. Tuttavia, le premiazioni sono intrattenimento, e le candidature una bussola per orientarci e vederci più chiaro nel panorama cinematografico contemporaneo. Per questi (e altri) motivi, parlare dei David è comunque importante.

Aristotele diceva che “una rondine non fa primavera”, ma cosa, se invece, i segnali sono molteplici? Cosa dire se la bella stagione – e in questo caso s’intende una sorta di rinascita, una rifioritura del cinema italiano – è annunciata da segni più evidenti e numerosi?

Di numeri veri e propri si può innanzitutto parlare. Cinetel rivela che il 2023 è stato l’anno della ripresa: +61,6% degli incassi e +58,6% delle presenze rispetto al 2022. Le sale, quindi, hanno ripreso a popolarsi seguendo ritmi pre-pandemici. La cara vecchia sala che accoglie tutti: dagli innamorati al primo appuntamento ai cinefili frustrati da esperienze casalinghe insoddisfacenti e schermi piccoli, troppo piccoli. I dati positivi devono certo molto al caso “Barbenheimer” (il testa a testa tra Oppenheimer e Barbie, che ha portato gli italiani al cinema in estate, stagione generalmente più debole dal punto di vista degli incassi), ma non solo: un film italiano, infatti, ha contribuito ancora di più – e ne parleremo fra poco. La rinascita non passa però solo dai numeri. Da un punto di vista qualitativo, ci si potrebbe soffermare sui singoli titoli. Lo si potrebbe fare, e lo faremo, prima con uno sguardo più largo, e poi con uno più stretto. Partendo da lontano, infatti, negli ultimi cinque anni, e nell’ambito dei soli David, qualcuno potrebbe azzardare di parlare di una piccola primavera. Nel titolo ci riferiamo a cinque film: cinque sono infatti gli ultimi lungometraggi vincitori della statuetta, a spiccare, dopo anni di monotonia. Si tratta di cinque perle: nel 2019 vinse Dogman, il crudissimo film di Garrone dal gusto neorealista; nel 2020 fu il turno de Il traditore, dove Bellocchio narra la sfaccettata storia del “pentito” Tommaso Buscetta; nel 2021 Giorgio Diritti regalò un ritratto creativo e commovente di un grande pittore, Ligabue, con Volevo nascondermi; il 2022 fu l’anno del ritorno di Paolo Sorrentino, con l’acclamato È stata la mano di Dio (candidato agli Oscar come “miglior film internazionale”); infine, il 2023, vide trionfare Le otto montagne, di Van Groeningen e Vandermeersch, che con i suoi scenari forse intercettò una tendenza nuova, rispondendo a un desiderio di tanti giovani e non, quello di perdersi nella natura, o in cima a una montagna, dopo un po’ di anni di confinamento urbano. Qui qualcuno potrebbe fermarsi e lamentare: cinque bei film, per quanto belli essi siano, sono forse un po’ pochi per parlare di rinascita. E allora, restringiamo il campo, e guardiamo solo al presente. La cinquina di quest’edizione dei David ci mostra un quadro molto confortante, segno di un anno splendido per il cinema italiano.

5 frame dei 5 film in gara. Dall’alto verso il basso: 
Rapito, Io Capitano, Il sol dell’avvenire, La chimera, C’è ancora domani.


Ritorna Bellocchio con Rapito. La vicenda è sconosciuta oggi ai più, ma a metà Ottocento destò un gran clamore: tratta del rapimento di Edgardo Mortara, bambino sottratto dalla sua famiglia ebrea di Bologna, all’epoca parte dello Stato Pontificio, per volere del “Papà Re” Pio IX. Bellocchio racconta la storia in maniera da evidenziarne le luci, ma soprattutto le ombre (anche grazie ad una fotografia a tratti Caravaggesca), e ne esce da giudice imparziale e perfettamente laico. Ma non si tratta solo di un film “storico”, perché la storia è il pretesto per meditare sul potere, sulle decisioni e sulla libertà, sulle imposizioni e sui veti: il caso microscopico che parla dell’uomo in generale – un vero gioiellino.

Poi, un film potente, necessario e dal respiro internazionale: Io Capitano, ovvero il dramma dell’infinita Odissea contemporanea tra Africa ed Europa, per la regia di Matteo Garrone (a rappresentare l’Italia fra i migliori cinque film stranieri agli Oscar). Impossibile non lodare i due attori protagonisti, Seydou Sarr e Moustapha Fall, “sconosciuti” (come un po’ lo era Marcello Fonte in Dogman) a cui lo spettatore si affeziona subito, per la loro bravura e per la tenera tenacia dei loro personaggi. Qualcuno ha lamentato una rappresentazione troppo stilizzata dell’Africa nella prima parte del film. Su questo si può discutere. Di certo, però, Garrone non commette un passo falso che sarebbe stato grave, cioè assumere un tono troppo paternalistico. Invece, il finale (no spoiler) è giusto, ambiguo perché la realtà che racconta non è affatto risolta. Ritorna anche Nanni Moretti che mancava ai David dal deludente 2015: con Il sol dell’avvenire i fan si sono ritrovati e al contempo commossi. Ritrovati perché è un ritorno in grande stile e nel suo stile, “morettismo” puro (c’è tutto: riflessioni sulla politica, sulla vita, nevrosi, monopattini per le strade di Roma di notte e piroette sulle note di Battiato). Commossi perché qualcuno pensa sia un addio al cinema. Colpevole sembra essere l’ultima scena, che molti hanno interpretato come un “Arrivederci, il mio compito qui è finito”, ma che noi vediamo più come un “Dai che insieme ce la facciamo”. Il quarto film in gara è La chimera, di Alice Rohrwacher: un tesoro non più tanto nascosto di cui abbiamo già parlato e ampiamente tessuto le lodi, sempre su questi canali (qui). C’è una scena, però, che merita una menzione speciale. La scena del cantastorie, al mare, che incanta i presenti e narra le peripezie dei tombaroli protagonisti, che noi vediamo susseguirsi con la musica in sottofondo. Nella sua semplicità, la sequenza è un pezzo di bravura, perché riassume bene l’anima del film: un po’ buffo, un po’ pensoso, un po’ sognante, un po’ serioso. A chiudere il cerchio, C’è ancora domani, debutto alla regia “in bianco e nero” per Paola Cortellesi, che invece non poteva sperare in un successo più vivido. In una Roma alla vigilia del referendum del 2 giugno 1946, Delia (Cortellesi) è alle prese con una vita difficile e un marito violento. Anche qui c’è la storia che parla al presente. Anche qui ce n’era bisogno. Lo dimostra il fatto che, pur non essendo un film perfetto, è un film che funziona, molto: è questo il campione di incassi in Italia nel 2023. Con più di 36 milioni di euro, Cortellesi supera Christopher Nolan e Greta Gerwig, e si candida seriamente alla vittoria del suo primo David alla regia. 
Tiriamo le somme. Il cinema è un’arte che può tutto: in un’epoca come quella attuale, può occuparsi di parlare del reale e di denunciare, o inversamente cercare di emozionare e di far evadere (ma non è anche il desiderio di evasione una forma di denuncia?).
Queste due funzioni le troviamo in tutti e cinque i film in gara. Chi vincerà? Poco importa. Ciò che ci rincuora è questo: una rondine non fa primavera, ma, forse, cinque sì.

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