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«Un poco tutti i giorni» – Intervista a Matteo Gennari

L’autore.

Nato a Milano nel 1975, si è laureato in Lettere Moderne alla Statale. Ha insegnato in una scuola privata per due anni, ha impartito lezioni private e ha collaborato con alcuni giornali, tra cui «D» di Repubblica. Nel 2003 si è trasferito in Brasile dove insegna lingua e letteratura italiana – nel privato attualmente, ma nel corso degli anni ha collaborato con vari istituti tra i quali l’Istituto Italiano di Cultura e l’Università Cattolica PUC. Collabora una ONG, nella Favela Rocinha. In Italia ha pubblicato: nel 2016 Come perdere l’anima, romanzo noir per goWare di Firenze e Un succo naturale, grazie romanzo autobiografico per bookabook di Milano; nel 2017 Favelado. Quaranta racconti da Rio de Janeiro per Ofelia Editrice di Lecce; nel 2019 Cristo si è fermato a Rio per Unicopli di Milano. Da ultimo, ha pubblicato la versione audiolibro del romanzo autobiografico Il fumo della pipa va lontano per Recitar Leggendo di Perugia.

 

Buongiorno Matteo, ti ringrazio per questa intervista. Ti andrebbe di parlarci di come tu sia arrivato a Cristo si è fermato a Rio? So che non è di certo il tuo esordio?

Buongiorno Demetrio, sì. Cristo si è fermato a Rio è il mio quinto libro, ed è una raccolta di racconti. Ho voluto mescolare coscientemente un tipo di scrittura giornalistica con un tipo di scrittura poetica, mescolare reportage, fiction e poesia. Per farlo ho scelto la forma del racconto che mi permetteva di spaziare, di soffermarmi talvolta su questioni legate al crimine organizzato a Rio o sui più importanti avvenimenti politici degli ultimi anni, altre volte su elementi magico/mistico/religiosi esemplificati dalle attività di un Centro Spiritista (che frequento) oppure sull’analisi del comportamento dei miei familiari e sul mio stesso comportamento inserito in un contesto nel quale non sono nato e nel quale mi sono abituato/forzato a vivere.

Prima di approfondire questi aspetti, permettimi di chiederti il tuo rapporto cogli editori e con l’editing, visto che sei al quinto romanzo.

Con quattro editori ho avuto ottimi rapporti relativi all’editing, con uno pessimi. Ciò che mi preme davanti a una operazione di editing è avere a che fare con persone che sappiano scrivere. Purtroppo in una delle cinque esperienze mi sono scontrato con una persona che aveva appena finito l’università ed era piena di presunzione, e con poche idee. Nelle altre quattro esperienze le cose sono andate bene e credo che io e i vari editor abbiamo dato il meglio. Per quanto riguarda Cristo si è fermato a Rio il mio rapporto diretto è stato con Giorgio Politi; Flavio Santi leggeva in seconda battuta. La lettura del Dottor Politi è stata fondamentale. La critica iniziale che ha fatto alla prima stesura della raccolta mi ha fatto capire cosa avevo solamente intuito. E infatti non ho avuto nessun problema a cambiare almeno la metà dei racconti perché sapevo che c’era qualcosa che non funzionava ma non avevo capito cosa. Dopo questo primo contatto e la seconda stesura della raccolta, non abbiamo avuto più problemi. Per quanto riguarda il titolo, la decisione è stata loro, io avevo altre idee ma nessuna che mi convincesse. Intitolare così la raccolta ha avuto subito un effetto positivo: ho riletto dopo più di un ventennio l’opera Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi e sono rimasto impressionato dall’enorme numero di analogie con la mia opera. Questa constatazione ha rafforzato la convinzione che l’intuizione di Santi e Politi fosse quella giusta.

Sono molto curioso della tua formazione – e di conoscere i tuoi modelli, adesso che citi Levi.

Mi sono laureato in Lettere a Milano e ho sempre amato e continuo ad amare la letteratura italiana. Ho tanti modelli e tanti eroi, su tutti citerei Pier Paolo Pasolini e Giacomo Leopardi. Per me poi che vivo all’estero è importante non solo il panorama letterario ma la stessa lingua italiana, nel senso che scrivere in italiano e non in portoghese è una scelta ed è un modo perché il sottile filo che attraversa l’Oceano Atlantico non si spezzi. Sono terrorizzato dall’idea di perdere le mie origini e già mi è capitato di svegliarmi e, dopo anni di assenza dal mio Paese, chiedermi: «Ma io di dove sono? Non è che forse mi sono sbagliato, non è che è stato tutto un sogno, non è che forse sono nato in Brasile, a Copacabana?». Scrivere in italiano è un modo per esorcizzare questa paura. Leggo in italiano, leggo autori e autrici contemporanei, li leggo nel mio Kindle. Amo Elena Ferrante, mi sono innamorato de “L’amica geniale” e anche de “I giorni dell’abbandono”. Ho deciso di leggerla dopo aver visto varie persone in spiaggia qui a Rio con in mano i libri della Ferrante, tradotti in portoghese. E dopo averli apprezzati anch’io mi sono sentito orgoglioso di parlare la stessa lingua con cui Elena Ferrante scrive.

Continui a menzionare la scrittura sia come azione quotidiana sia come necessità. Mi sembra una parziale definizione di un’etica, o meglio: dell’applicazione di un’etica, un metodo.

Hai ragione. C’è sicuramente dell’etica nel mio metodo di lavoro. Scrivo come fossi un artigiano, un poco tutti i giorni, un po’ di tutto ma principalmente inizi di qualcosa, di un possibile romanzo o di una generica opera letteraria o racconti diaristici relativi a ciò che mi succede e che succede attorno a me, nella mia casa, nel mio quartiere, nella città in cui vivo da 16 anni, che è Rio de Janeiro. Tutti i giorni poi rivedo quello che ho scritto, magari la sera a distanza di ore dalla prima stesura e solitamente lo butto via (scrivo a penna su normali quaderni scolastici). Alle volte però le pagine, le parole mi sembrano illuminate di una luce diversa, una luce più interessante e allora comincio a lavorare su quella singola pagina che apparteneva a un quaderno con moltissime pagine uguali a quella, insignificanti come quella. Se capisco che la luce viene da un lampo di poesia, penso a un racconto (o a una sequenza di racconti). Se capisco che il discorso è più lungo e complesso, penso a un romanzo. E per 40, 50 giorni seguo nella direzione indicata da quel lampo isolato in mezzo al grigio, e lavoro al testo tutti i giorni, tra una lezione di italiano, una litigata in casa, un abbraccio alla figlia, tra una cosa e l’altra. In quei 40, 50 giorni vivo a tre metri dal terreno, niente mi tocca davvero, niente mi fa male davvero. Solo esiste questo lavoro artigianale da portare a termine. Io credo che ci sia etica nel mio metodo di lavoro, nella fedeltà da anni ormai a questo metodo, indipendentemente dal successo o insuccesso delle mie opere.

Pensando a Rio e al Brasile, mi è venuta in mente una serie, 3%, di produzione brasiliana. Molto bella. L’hai vista? Se sì, cosa ne pensi? In generale qual è il tuo rapporto con il cinema, la serialità?

No, non l’ho ancora vista. Mi interesso molto di serie, ma ne vedo poche e quando mi piacciono rivedo anche quattro volte ogni puntata. Fra tutte mi hanno ipnotizzato due serie HBO, Game of Thrones e Chernobyl. Tra le serie in stile brasiliano mi è piaciuta molto Narcos di Ze’ Padilha, regista dei film Tropa de Elite 1 e 2, ambientati qui a Rio, che io e milioni di brasiliani abbiamo visto almeno una decina volte l’uno. Ogni tanto mi innamoro di una serie e di un personaggio e allora li studio per cercare di imparare come si deve raccontare una storia. Mi piacerebbe tantissimo collaborare magari un giorno con uno sceneggiatore e partecipare alla realizzazione di una serie televisiva. Quando ero più giovane (ed avevo più tempo) andavo molto spesso al cinema (adoravo Stanley Kubrick). Andavo anche molto a teatro, a vedere soprattutto le opere di Samuel Beckett nei vari teatri di Milano, in varie lingue (una volta anche in russo). Oggi non vado quasi mai al cinema a vedere film che mi interessano (mi limito a quelli per bambini) e vado ogni tanto a teatro.

E con la poesia? La tua raccolta di racconti ha qualche accenno di “poesia”, penso più a un ritmo o a un modo di guardare la realtà.

Ho sempre amato la poesia ma oggi la leggo poco. Le poesie di Leopardi mi hanno accompagnato fin dalle scuole elementari (ed anche la Divina Commedia di Dante). Ho scritto parecchie poesie e canzoni (cantavo in una band punk rock, a Milano, e scrivevo parte dei testi) e quando adotto la forma racconto per esprimermi (come in Cristo si è fermato a Rio) lo faccio pensando al racconto come a una via di mezzo, a un compromesso tra romanzo e poesia. C’è un poeta contemporaneo, un milanese, che stimo tantissimo e consiglio a chiunque voglia apprezzare l’antico verso nostrano vestito di panni moderni: Ettore Fobo. E, fra le sue varie raccolte, soprattutto Musiche per l’oblio. Le sue poesie, la sua ricerca poetica, l’esperienza e la forza espressive sono uniche.

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