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“Un libro come un maglione, uno strumento musicale come un pezzo di pane”

5 dicembre 1943, Venezia: il piccolo residuo di normalità delle vite di decine di Ebrei viene definitivamente cancellato e i loro cammini vengono forzatamente indirizzati verso i campi di concentramento d’Italia e d’Europa.

5 dicembre 2018, Pavia: lo scrittore ed ebraista Matteo Corradini, premio Andersen 2018, interviene in occasione dell’anniversario, nell’ambito della mostra “L’offesa della razza”, organizzata dall’associazione Anpi presso la Sala dell’Annunciata, e conduce i presenti in un viaggio fatto di vecchie fotografie, articoli di giornale, curiosi aneddoti e acute riflessioni sull’attualità.

Attraverso le sue parole conosciamo persone come Ilse Weber, ebrea boema deportata a Terezin, che durante la detenzione lavorò in infermeria e riscaldò i cuori dei piccoli pazienti con canzoni da lei composte; Adele, vedova ebrea di Bergamo, la cui lista di oggetti confiscati, tra i quali figura persino un mestolo, venne pubblicata sul numero del 29 aprile 1944 della Gazzetta Ufficiale; Roberto Bassi, dermatologo di Venezia, figura che ispira, per certi aspetti, il giovane protagonista di Solo una parola, il libro di Corradini in uscita a gennaio, in cui si immagina che tutti coloro che indossano gli occhiali vengano additati come persone losche e inaffidabili e siano successivamente emarginati.

Ognuno di questi personaggi diventa poi spunto per una digressione più ampia: Ilse ci dimostra quanto sia importante, per un adulto, trasmettere il desiderio e la speranza del futuro ai bambini; l’assurdità della storia di Adele, punto di partenza per la stesura dell’opera Il mestolo della signora Adele (pubblicato nel 2008), ci fa capire che lo sterminio è solo l’ultima fase di un processo di discriminazione che lo Stato porta avanti giorno per giorno; le vicende di Solo una parola ci spiegano come cambiano i pensieri di una persona nel momento in cui diventa razzista.

Inoltre, Corradini si sofferma molto su altri due concetti: da un lato quello del “prima”, cioè il momento in cui la differenza razziale inizia a essere considerata normale, in cui chi è diverso viene visto come naturalmente inferiore, ed è proprio in questo contesto mentale che avvennero le deportazioni e quasi nessuno alzò la voce per protestare; dall’altro quello della moda di darsi delle etichette, e in particolare di identificarsi con il nome del proprio nemico, e piuttosto che chiamarsi, ad esempio “antifascisti” e indicare ciò che non si vuole essere, sarebbe più opportuno trovare delle parole che definiscano invece ciò che siamo.

Noi di Inchiostro, presenti all’incontro, ne abbiamo approfittato per porgli qualche domanda sulla sua visione di alcuni aspetti della modernità.

I social network sono i protagonisti dell’epoca contemporanea, usati ora come diario della propria vita, ora come arma potentissima per diffondere opinioni e “sentimenti” fuorvianti sulle tematiche più disparate. Potrebbero essere visti come strumenti di educazione?

I social network permettono alla gente di esprimersi in modo estremamente veloce. Il pensiero acritico, la rabbia, l’insulto, cose che fino a qualche anno fa erano confinate in luoghi più piccoli e stretti, oggi riescono ad arrivare a più persone appunto attraverso i nuovi mezzi di comunicazione. Alcune forme di questa rabbia hanno purtroppo una visibilità molto alta, mentre altre sono semplici sfoghi.

Sicuramente approfittarne in modo sensato e consapevole non è facile. L’uso può aiutare la cultura, tant’è che io stesso me ne servo per diffondere messaggi, ma non basta: i social network possono essere solo uno dei tanti mezzi per l’educazione. Certo, se domani mi dicessero “chiudiamo i social!”, non stapperei una bottiglia di spumante, ma di sicuro non piangerei. Ben diversa sarebbe la mia reazione nel caso in cui annunciassero “domani chiudiamo Internet!”, in quanto lo prenderei come un enorme passo indietro per l’umanità.

Crede che il modo di insegnare storia ai ragazzi di oggi dovrebbe essere diverso?

La storia della seconda guerra mondiale fa parte dei programmi di studio di terza media e di quinta superiore e gli insegnanti affrontano l’argomento con metodi diversi: chi con uno sguardo sul presente, chi con un approccio tradizionale al dato storico.

Da un punto di vista puramente mentale, i ragazzi di oggi vedono quei giorni come lontani: non è una colpa, ma piuttosto un aspetto sul quale si dovrebbe riflettere. Rinnovare continuamente la didattica non è dunque un esercizio di stile, ma significa stare sempre più vicini alle nuove generazioni, rendendo più attuali giorni distanti da loro nel tempo e nei modi di pensare, accendendo l’attenzione su parole e problemi che non fanno parte del loro bagaglio.

Le ricerche e gli studi al campo di Terezin, luogo di detenzione di molti artisti e intellettuali, le hanno permesso di portare alla luce strumenti, libri e partiture musicali. Come è possibile che ci sia spazio, in un contesto del genere, per la cultura?

Quando gli Ebrei venivano strappati dalle loro case, potevano portare solo una valigia di un massimo di 20/30 chili, un peso infinitesimale rispetto al peso di una vita: se ci pensiamo un attimo, notiamo che sono i chili che noi oggi carichiamo su un aereo e che spesso non sono sufficienti nemmeno per una piccola vacanza.

Possiamo immaginare che in quei chili ci fossero soprattutto vestiti e cibo, ma gli Ebrei deportati da Praga verso Terezin ci rivelano il significato speciale di cui, per loro, era impregnata la parola “sopravvivenza”. Infatti portarono due tipi di oggetti che noi non ci aspetteremmo: strumenti musicali e libri. A Terezin c’erano circa 40 000 libri che alla fine erano stati raccolti in alcune stanze a formare una specie di biblioteca.

Noi, oggi, viviamo una libertà talmente normale e quotidiana che possiamo considerare la musica e la lettura come passatempi. Invece gli Ebrei ci hanno dimostrato di preferire i libri ai vestiti, gli strumenti al cibo perché un libro riesce a scaldarti come un maglione quando fa freddo e uno strumento musicale ti permette di sopravvivere esattamente come un pezzo di pane. La nostra ragione ci dice che non è così, però evidentemente l’uomo non ha bisogno solo di calore fisico o di nutrimento in senso alimentare. Dobbiamo dunque essere grati di questa libertà che ci permette di pensare che un clarinetto e un libro siano elementi qualunque, perché a quel tempo erano visti invece come oggetti di sopravvivenza.

Con la fondazione della Pavel Zalud Orchestra e del Pavel Zalud Quartet ha ridato splendore alle canzoni che erano state composte e suonate a Terezin. Che ruolo ha la musica, nell’ambito della Memoria, rispetto a un documento scritto o a una qualsiasi altra forma d’arte?

La musica non ha bisogno di essere tradotta, parla alle persone di tutte le età, è pervasa da una forza che ci fa ballare e ancora oggi questa musica ci spinge al movimento. Mantenere in vita la musica di allora significa sperare dunque che la gente non si fermi.

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