Attualità

Totò Riina: perché è giusto applicare il 41bis

La morte del boss Totò Riina, detto “û curtu”, ha sollevato una questione di grande attualità: il “problema” del 41 bis per i detenuti mafiosi, il cosiddetto “carcere duro”. La legge, sebbene allo stadio germinale esistesse già dal 1986 con la “Legge Gozzini” venne di fatto approvata e applicata durante la stagione delle stragi del 1992. Si trattò certamente di una risposta da parte dello Stato di tipo emergenziale e concausata dalle circostanze impellenti ma non per questo frettolosa. Totò Riina è stato uno dei primi, e certamente uno dei detenuti più importanti a subire e scontare questa pena e le sue modalità. È indubbio anche che la durezza della pena abbia contribuito non poco negli anni ad aggravare le sue condizioni di salute, già probabilmente compromesse al momento dell’arresto. La sua condizione, ma non solo la sua, ha spinto nel 1995 il “Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti” (C.P.T.) a un’ispezione nelle carceri italiane dove è applicato il 41 bis. Ne è risultato un rapporto nel quale si denuncia con forza la grave condizione di annichilimento dell’essere umano in tale regime detentivo. La stessa Amnesty International ha denunciato le condizioni degradanti dei detenuti contrarie alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Questi problemi di natura etica ancor prima che giuridica ci costringono a riflettere criticamente sulla natura della lotta alle mafie organizzata e dello stato di diritto. In particolare, è giusto adottare misure eccezionali per contrastare fenomeni eccezionali come la mafia?

GiulianoGiugno 2015: alcuni manifestanti protestano davanti al Palazzo di Giustizia di Milano contro il 41bis

Un’analisi critica e accurata della storia recente dovrebbe farci propendere per il sì, e di seguito proverò a spiegare il perché. Mafia è un termine convenzionale per indicare la criminalità organizzata. Come suggerisce il nome stesso parliamo di un’organizzazione ordinata e stratificata con le sue regole, le sue procedure e i suoi metodi. Spesso ci si è rivolti alle mafie con l’appellativo di anti-stato. È una definizione che non convince perché sembra evocare una qualche natura anarchica delle stesse. La mafia non è anarchia, ma anzi è ordine e disciplina quasi militaresca. Le mafie sono semmai un altro stato che ricorda in parte la stratificazione sociale del feudalesimo ma ancora di più la dominazione borbonica. Certo però, come qualunque associazione sovversiva, necessita di due cose: del consenso, forzato o meno, dei suoi sottoposti e di una struttura, diciamo così, burocratica non ufficiale. Il primo lo si ottiene offrendo favori e servizi che uno stato non efficiente non eroga (“lo Stato dia come diritto ciò che la mafia dà come favore” diceva Carlo Alberto dalla Chiesa) oppure corrompendo, ricattando e minacciando quella parte di popolazione che non accetta compromessi, almeno inizialmente. Ma la seconda, quella che ho definito “burocrazia ufficiosa”, si costruisce col tempo e con gli anni attraverso rapporti di fiducia, segreti e in generale grazie una rete di comunicazione efficiente che resiste a molti tentativi di sabotaggio e si adatta camaleonticamente al progresso tecnologico, ora sfruttandolo, ora snobbandolo. Se il primo, il consenso, si può e si deve debellare attraverso una massiccia e capillare presenza dello stato (educazione e formazione prima di tutto), la seconda (la rete di comunicazione) è una questione più complessa. Sebbene ogni membro delle cosche, dai picciotti ai capibastone sappia in teoria come agire in caso di vuoti di potere, è indubbio che il centro nevralgico siano i boss. E il potere di un boss non si esaurisce con l’arresto, né con la detenzione. La storia recente ce lo dimostra: Salvatore Madonia, boss di Cosa Nostra, comandava regolarmente dal carcere dal quale era detenuto in regime di 41 bis. Grazie ai colloqui regolari con la moglie concessi dalla legge, arrestata poi anch’essa nel 2008; egli riusciva a impartire ordini per estorsioni, gestione dell’economia ed esecuzioni. Salvatore Cappello, altro boss di Cosa Nostra, comandava tranquillamente dal regime di carcere duro, anche lui grazie ai colloqui regolari con la sua compagna Maria Rosaria Campagna. E ancora, questa volta in Campania, Francesco Bidognetti gestiva il racket della prostituzione, ancora una volta, in regime di 41 bis grazie ai colloqui continui con i familiari. Questi casi, unitamente alle denunce delle realtà associative, sono apparentemente degli elementi a favore dello sdoganamento dell’efficacia del 41 bis nella lotta alla criminalità organizzata. Ma a pensarlo davvero si peccherebbe di superficialità o di eccesso di idealismo.

untitled-article-1467105976-body-image-1467106637Volantino della campagna “pagine contro la tortura”

Il 41 bis non nasce tanto e solo in un’ottica di punizione, bensì di contrasto. Chiunque studi la storia della criminalità organizzata sa bene che almeno fino a 25 anni fa le carceri erano, per citare Enzo Ciconte, delle vere e proprie università della mafia all’interno delle quali il ladruncolo comune diventava un affiliato con tutti gli onori. Questo perché i detenuti avevano modo di conoscersi e formarsi in un ambiente dove il boss di una città poteva mangiare vicino a un giovane e intraprendente criminale di bassa lega. Il 41 bis in teoria servirebbe proprio ad arginare questi fenomeni e a fare in modo che i detenuti per associazione a delinquere di stampo mafioso non abbiano contatti con nessun altro all’interno del carcere, esclusi i familiari ai colloqui consentiti. Proprio questi rimangono di fatto l’unico canale con l’esterno. Verrebbe da chiedersi allora perché non impedire anche i colloqui con i familiari. Una possibile risposta è che proprio questi colloqui siano monitorati dalle Forze dell’Ordine per risalire ai membri ancora liberi delle cosche. Gli stessi arresti effettuati ai danni dei boss che comandavano dalle carceri sembrano resi possibili grazie all’opera di monitoraggio dei discorsi che questi intrattenevano coi familiari. In altre parole: “tieniti stretti gli amici e ancora di più i nemici”.

Ma cosa dire a chi contesta la condizione di disumanità dei detenuti al 41 bis? È bene distinguere in questo caso la problematica delle condizioni dei carcerati dalle misure cautelative. È indubbio che le prime siano motivo di vergogna per lo Stato Italiano. Forse le carceri sono (un po’) meno di un tempo, dei luoghi di ingrassamento delle fila mafiose ma certamente sono dei luoghi dove il degrado e l’abbandono regnano sovrani. Poco importa quali siano i reati di cui si sono macchiati gli occupanti, nessuno di questi giustifica una condanna al degrado. Le carceri sono, per legge, dei luoghi di correzione e di recupero e sono poche le strutture che adempiono veramente a questo compito. Questo non perché un percorso di recupero si dimostri sempre efficace nel reintegro nella società ma perché la forza di uno stato che si definisca civile passa anche per la civiltà con la quale adopera la forza. Tutto questo però deve essere considerato disgiuntamente dalla questione del contrasto alle mafie. Ammesso che esistano i criminali comuni, un mafioso non è un criminale comune e merita un trattamento a parte e continuativo allo scopo di recidere quei legami che tengono unite le organizzazioni criminali. Lo stato quindi lo curi quando è malato, lo assista se invalido, lo tuteli se subisce abusi di sorta ma non permetta in alcun modo di continuare ad essere ciò che era in libertà. Sia chiaro quindi a chi si occupa di diritti umani che i primi a non rispettare e permettere le condizioni di vita degna alla società civile sono i mafiosi stessi e in una logica di tutela dei cittadini il trattamento del carcere duro non è una cattiveria ma una misura di difesa.

No41BisManifestanti davanti  al tribunale di Torino per protestare contro il 41bis. Marzo 2015

Stando agli inquirenti Totò Riina è morto mentre era ancora al comando di Cosa Nostra. Se è vero, questo deve essere un campanello d’allarme affinché le istituzioni si muovano per compiere il passo successivo. Applicare veramente il 41 bis. Ci chiederà “perché? Finora non è stato fatto?”. No, o comunque non abbastanza. L’8 giugno 1992 il Parlamento approvò il decreto Scotti-Martelli, detto decreto Falcone, che rafforzava l’efficacia del carcere duro. Il 9 giugno una telefonata anonima all’ANSA di Palermo, identificatasi solo con la sigla di “Falange Armata”, intimava che “il carcere non bisognava toccarlo”. La susseguente stagione delle bombe (Via Palestro a Milano, Via dei Georgofili a Firenze, ecc..) sono, per chi sostiene l’esistenza della trattativa stato-mafia, una prova, insieme alla telefonata e al famoso papello, che la mafia non poteva semplicemente accettare che il carcere non fosse più di sua competenza. Questo avrebbe quindi portato a un compromesso tra stato e mafia al fine di giungere a un accordo che andasse bene ad entrambi le parti. Agire sulle carceri sia rafforzando le misure cautelative per i mafiosi, sia implementando un sistema di recupero dei detenuti che permetta la correzione, sono le vie maestre attraverso le quali uno stato civile deve esercitare la propria forza. Per farlo è necessaria però una società vigile e non indifferente, ma anche severa e ferma affinché il cieco idealismo non interferisca con le procedure necessarie di contrasto e tutela. Così come nessun reato può giustificare condanna a una vita di degrado e annichilimento, così nessuna denuncia o rivendicazione di diritti deve essere strumentalizzata per eliminare il 41 bis. Sarebbe come cancellare i nomi dalle lapidi delle vittime.

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