BirdmenCinema

Sicilian ghost story: sparizione, immaginazione, riemersione

Questa recensione, forse più di qualunque altra abbia scritto in passato ha a che fare con il numero tre. Tre come “Mafie, Legalità e Istituzioni”, il ciclo di conferenze pavese, dedicato alla memoria del Prof. Vittorio Grevi ormai giunto alla XIII edizione. Tre come i presentatori della serata, nell’ordine Rosalia Cannuscio, Roberto Figazzolo e Francesco Giambelluca ognuno rappresentante delle tre realtà che compartecipano alla realiIMG_7288zzazione delle conferenze ovvero rispettivamente la realtà giovanile degli studenti, quella culturale e quella della legalità. Tre come le parole del titolo del film proiettato giovedì sera al Politeama: Sicilian Ghost Story. Probabilmente è solo un’idea mia, una sorta di meccanismo inconscio della mente per individuare un ritmo, un elemento ridondante nella sequenza di immagini, suoni e parole nel film della coppia di registi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Ma il tre ritorna inesorabile da qualunque livello si analizzi la storia: che sono appunto tre.

Luna (Julia Jedlikowska), una tredicenne italo-svizzera abitante di un paese siciliano ai confini di un bosco, è innamorata di un suo coetaneo Giuseppe (Gaetano Fernandez). Ma prima che il loro amore possa essere vissuto appieno Giuseppe scompare. Inizia quindi un percorso di ricerca della protagonista che la porterà a sprofondare in una realtà oscura e soffocante fatta di omertà e indifferenza. Fin dal titolo è chiara l’intenzione dei registi di evitare, almeno in apparenza, qualunque tipo di storia dai risvolti giuridici o eccessivamente polarizzati verso la cultura dell’’antimafia. Quella di Giuseppe e Luna è una storia piccola e intima che si snoda prima di tutto negli oggetti dei protagonisti, dagli album dei Calciatori alle action figure di Dragon Ball passando per i vestiti da fantino. Questo livello del racconto, il primo ovvero la story, è senz’altro quello più straziante e intenso, non tanto (o non solo) per la purezza dell’amore che coinvolge i due protagonisti ma più che altro per la facilità con la quale si entra in contatto con il vissuto dei ragazzi. Dalla scuola al cibo, dal gioco allo studio la loro esistenza quotidiana è già essa stessa un atto di ribellione tangibile verso una società siciliana educata alla coesistenza quando non alla complicità con Cosa Nostra.

Il secondo livello della storia che scelgo di chiamare ghost è forse la parte del film più vertiginosamente surreale. La scelta degli autori di alternare realtà e sogno li avvicina un poco alla regia di Guillermo del Toro senza per questo sfociare mai covermd_homedirettamente nel fantastico visivo ma solo in un delicato surrealismo ora romantico ora inquietante. Complice anche una fotografia magistrale di Luca Bigazzi, a detta di Figazzolo “il miglior fotografo italiano del momento”, capace di regalare gradazioni cangianti a seconda del contesto: ecco allora come uno dei paesaggi più belli al mondo, il parco archeologico di Selinunte, grazie a una scelta di fotografia accurata, diventa magicamente un luogo tetro, tenebroso e decadente, senza per questo perdere in magnificenza. Ma anche i corridoi dei caseggiati abusivi, i luoghi della prigionia di Giuseppe, sono caratterizzati da un contrasto di colori caldi e freddi (chiaramente i secondi in netta maggioranza) che bene si intonano con la dualità di una terra, come quella siciliana, che vive di inconciliabili contrasti tra luci e ombre. È come se Bigazzi, realizzando la fotografia di questo film, avesse seguito alla lettera quella visione di Goethe il quale affermava “Dove c’è molta luce le ombre sono più nere”.

Il terzo livello, quello più esterno per così dire e che io chiamo Sicilian, ci presenta il paesino di Luna, e forse in qualche modo l’isola intera, come una struttura a cupola autoportante degna del Brunelleschi. La cupola però si regge grazie a un intricato sistema di coperture, silenzi, sguardi e gesti, da risultare quasi impercettibile allo spettatore meno attento. In questo modo l’atmosfera soffocante che accennavo sopra si rivela in tutta la sua aberrante geometria psicologica che al confronto le ansie antropologiche di Orwell sembrano quasi uno scherzo. Il dialetto poi, generalmente (e giustamente per carità) elevato dal sentire comune al rango di poesia tradizionale, assume qui un’accezione rude, grezza66944_ppl, che stride con l’idea di mediterraneo che abbiamo appreso da altri film. Qui il siciliano è una lingua in codice e più lo parli meglio più incuti autorevolezza a chi ti sta attorno sia essa per rivendicare il possesso di una persona, di una casa o anche solo di un banco (“Il figlio dell’infame a scuola non ci torna più”). Il siciliano è una lingua da adottare anche per chi siciliano non è come la madre di Luna (Sabine Timoteo), una sorta di signorina Rottenmeier di Heidi ma più credibile, costretta a un siciliano poco naturale. Il padre di Luna (Vincenzo Amato) d’altro canto, autoctono, parla un siciliano più caldo e familiare oltre che più vicino alla protagonista ma nemmeno questa vicinanza salverà Luna dall’accusa ignobile di insanità mentale che la madre per prima le affibbia. Così se la madre rappresenta un estremo, fatto di formalità sterili e doveri inconsistenti, il padre pur nella sua adorabile umanità è a sua volta estremamente sottomesso a una mentalità alla quale non sa neanche di appartenere. In tutto questo Luna, la figura di mezzo e guarda caso la terza, emerge dalle ombre dell’uno e dell’altro genitore delineando in questo modo la propria fortissima identità.cannes2017-sicilian-ghost-story-film-semaine-de-la-critique-1140x627

Profondamente tre sono gli elementi di Sicilian Ghost Story: la realtà, la finzione e l’idealizzazione. La prima è la tragica storia di Giuseppe di Matteo, rapito da Cosa Nostra e tenuto in prigionia per 779 giorni, un intervallo di tempo che attraversa tre anni dal 1993 al 1996, con lo scopo di ricattare il padre Santino collaboratore di giustizia; per punirlo Cosa Nostra uccide prima Giuseppe e poi lo fa sciogliere nell’acido. La seconda è la storia di Luna, storia inventata ma verosimile di un amore innocente come quello tra due adolescenti ma inarrestabile nella sua ricerca di verità. La terza, l’idealizzazione, è il filtro attraverso il quale la storia diventa fiaba, per quanto macabra, e quindi si solleva da ogni limitazione realista per raccontare una storia solo con i suoi elementi primi e essenziali e per questo ideali. Laddove la vicenda del piccolo di Matteo ci costringe a una inevitabile catabasi, la forza del cinema riesce a farlo riemergere dall’oscurità nella quale è morto. Seppur con un ritardo di 21 anni è bello sapere che in qualche modo a Giuseppe è stata fatta giustizia. Di più, è riemerso.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *