Attualità

Siamo in guerra

di Giovanni Cervi Ciboldi

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Per chi non l’avesse capito (é sempre più difficile chiamare le cose col proprio nome): siamo in guerra.
Che la sia per importare o stimolare la democrazia, che si usi chiamarla missione umanitaria, che l’Italia conceda per ora solo le basi aeree e pattugliamenti, sempre di guerra si tratta.
Non che sia sbagliato l’intento: la lotta contro le dittature e alla violazione dei diritti umani deve sempre trovare sostegno.
L’Italia ha concesso l’uso delle proprie basi militari nella crociata contro Gheddafi. Eppure, in base agli accordi con la Libia, il belpaese non avrebbe dovuto affatto permetterlo.

Il crimine di bombardare i civili ha avuto una risposta anche da parte dell’Italia. Eppure, due settimane fa, quando i ribelli esplosero contro il regime prendendo le prime città, l’occidente stava a guardare, e l’Italia anche. L’interventismo di questi giorni ha il sapore di una corsa al rinnovo dei patti economici, non certo filantropia: una volta accertate le intenzioni dei ribelli, l’occidente avrebbe potuto appoggiarle immediatamente, qualora le avesse considerate condivisibili. Anche perché un dittatore disimpara presto a mediare, preferendo la repressione.
Essendo andata diversamente, gli scetticismi italiani possono considerarsi più che giustificati. L’ONU è intervenuto troppo tardi per permettersi una guerra lampo: la stessa Lega Araba era pronta ben prima dell’Europa. Solo alcuni soldati inglesi erano da qualche giorno al fianco degli insorti, forse per accertarne le intenzioni o per – qualcuno lo sostiene – fomentarne la rivolta.
Perché non si è intervenuti prima? Qualunque fosse la natura delle parole con cui Sarkozy minacciava bombardamenti mirati, molti erano pronti a scommettere che in breve tempo l’occidente sarebbe intervenuto.
Se l’attesa che ha preceduto la dichiarazione interventista della Francia poteva giustificarsi nella prudenza di non generare forzosamente una guerra a causa della reazione di Gheddafi, la rinnovata situazione di difficoltà in cui i ribelli si sono trovati mostrava che, qualora l’Europa fosse stata davvero intenzionata a supportare le rivolte, sarebbe dovuta scendere in campo al più presto.
La dichiarazione di Sarkozy si è prefiguarata allora come lo spartiacque tra due momenti: uno in cui si poteva aspettare ma non si è aspettato, l’altro in cui non si poteva aspettare ma si è aspettato.
In tutto questo l’Italia ha avuto una posizione coerente: non avrebbe potuto astenersi dagli obblighi comunitari dal momento che questi di fatto la obbligano – data la posizione strategica -ad essere un ponte di lancio verso il nordafrica. Ma neppure avrebbe voluto vedersi costretta a rivedere i patti economici con la Libia, fatto che non può che andare a discapito delle imprese che quotidianamente operano in quei luoghi. Dunque ha chiesto coesione e chiarezza.
I partiti di maggioranza sono però divisi. Se il Pdl si è arreso all’evidenza di non potersi tirare indietro, la Lega arriva a parlare di “terza guerra mondiale”. Ed è ovvio che, nella situazione di precarietà politica in cui l’Italia si trova ora, gestire una guerra non e’ certamente facile. Serve però più unità nelle decisioni. Serve appoggio a un governo che in nessun caso avrebbe potuto tirarsi indietro, e serve capire che in questo non è il momento di condurre anche battaglie politiche, perché ogni ritardo e ogni errore può pesare sulla vita delle persone. Alla fine si farà il bilancio dell’operato del governo, e sarà allora facile giudicare le scelte effettuate.
Per ora, a parte il ritardo che ha accomunato tutta Europa, l’Italia ha fatto quel che doveva fare, tenendo un basso profilo. Ma, per essere guerra, è guerra, e occorre finire presto ciò da cui non possiamo astenerci. Occorre cacciare la dittatura nel minor tempo possibile. Sia poi la pace, e se ne valuti il prezzo in vite umane.
Ma non la si chiami missione umanitaria, perché  in ogni guerra, l’umanità viene solo alla fine.

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