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A Nassiriya morirono uomini, non solo eroi

12 novembre 2003.

Sembra un giorno come i tanti altri trascorsi negli ultimi quattro mesi a Nassiriya, cittadina irachena situata sulle rive del fiume Eufrate, a sud della capitale, Baghdad.

Le truppe italiane della task force incaricata di partecipare alla missione di pace “Antica Babilonia” sono giunte nel paese a luglio, un mese e mezzo dopo il termine ufficiale della guerra (che in realtà verrà raggiunto in definitiva solo nel 2011, con il passaggio di potere alle nuove autorità irachene prescelte), la cosiddetta “Seconda guerra del Golfo”, iniziata nel marzo 2003 come operazione di liberazione dell’Iraq (Iraqi Freedom) da parte dell’esercito britannico e di quello statunitense.

Loro compito, quello di contribuire, come richiesto dall’ONU durante il Consiglio di sicurezza del 22 maggio 2003, alla rinascita del Paese distrutto dal decennio di devastazione iniziato nel 1990 con lo scoppio del primo dei due conflitti “del Golfo”. Il Comando dell’Italian Task Force, composto da militari, risiede a circa 7 km da Nassiriya, nella base denominata “White Horse”, mentre la restante parte degli aiuti provenienti dall’Italia, il Battaglione MSU (Multinational Specialized Unit) composto da membri dell’Arma dei Carabinieri, si è stabilita in due postazioni distinte nel centro di Nassiriya, la base “Maestrale” e la base “Libeccio”.

Da pochi giorni hanno messo piede su suolo iracheno anche due civili alquanto singolari che, non indossando alcuna uniforme né arma, scortati alla “White Horse”, attirano subito l’attenzione dei membri del Comando. Si tratta del regista Stefano Rolla e del suo aiutante, il giovane romano Aureliano Amadei giunti in territorio di guerra, non del tutto consapevoli dei rischi corsi vista l’ufficiale dichiarazione di pace, per girare un film sull’operazione “Antica Babilonia”, forti della loro ammirazione verso i soldati compatrioti che stanno contribuendo a una missione di pace di così ampia portata. I due circolano per le strade deserte delle città fantasma accompagnati da più squadre come scorta, visto il rischio concreto di essere attaccati: la guerra sarà pur finita su carta, ma i conflitti tra soldati e miliziani affiliati ai gruppi terroristici locali continuano rendendo la zona instabile e pericolosa.

Oggi, meta dell’uscita della troupe è la base Maestrale alla ricerca del comandante dei Carabinieri che aiuterà Rolla a ritrovare uno dei luoghi prescelti per girare alcune scene del film, e di scorte logistiche da riportare alla “White Horse”. Invece delle due solite camionette per scorta, oggi ne partirà una sola, del resto per Nassiriya sono solo 7 chilometri e tutto sembra tranquillo. Anche in città dove, a parte i soliti edifici sventrati e il dilagare della povertà, strascichi di dieci anni di conflitti diventati la normalità, il clima sembra rilassato. Arrivati davanti alla base vengono accolti dai colleghi Carabinieri; ancora tutto tranquillo, fin troppo.

Ore 10.40 locale (08:40 ora italiana)

Un camion cisterna pieno di tritolo e liquido infiammabile si dirige a tutta velocità verso il gruppo e, schiantandosi contro la barriera che vieta l’accesso all’area, esplode sbalzando in aria chi si trova più vicino, camionette comprese. Da qui la ricostruzione dei fatti si fa più complicata; nessuno, tranne il giovane Amadei, sopravvive all’attentato e i suoi racconti vengono più volte contestati da testimonianze e ulteriori ricostruzioni, lasciando tuttavia indubbio il bilancio delle vittime: 20 feriti e 28 morti in totale, 19 italiani e 9 iracheni. A perdere la vita sono 12 carabinieri (Massimiliano Bruno, Giovanni Cavallaro, Giuseppe Coletta, Andrea Filippa, Enzo Fregosi, Daniele Ghione, Horacio Majorana, Ivan Ghitti, Domenico Intravaia, Filippo Merlino, Alfio Ragazzi, Alfonso Trincone); 5 militari (Massimo Ficuciello, Silvio Olla, Alessandro Carrisi, Emanuele Ferraro, Pietro Petrucci) e 2 civili (Stefano Rolla e Marco Beci, cooperatore internazionale).

Le inchieste che furono aperte successivamente all’attentato, primo di una lunga serie, portarono alla luce la matrice dell’attacco e i suoi presunti autori: i miliziani affiliati a gruppi terroristici (probabilmente vicini ad al-Quaida) non locali, ma esterni al territorio in cui le forze italiane erano solite operare. Un’ulteriore inchiesta che ha scatenato dibattiti negli scorsi anni e ancora ne scatena oggi, ha riguardato l’inefficienza (o meglio insufficienza) delle misure di sicurezza adottate nel costruire la base e nella difesa della stessa: alcuni giudicano sbagliata la scelta di insediare le basi in città; altri quella di non proteggerle esternamente con delle barriere difficilmente accessibili, errore forse dettato dalla fiducia riposta dai militari nella popolazione locale, mai stata ostile nei confronti dei soldati sparsi sul territorio che in qualche modo cercavano di aiutare i civili a risollevarsi dal baratro in cui la guerra li aveva spinti. Si trattava pur sempre di militari, hanno spesso ripetuto in molti, come quelli che la guerra l’avevano iniziata e di pace vera e propria, lì, non ne avevano mai portata, ma che anzi, avevano forse camuffato sotto la definizione di peacekeeping mission finalità meramente politiche ed economiche.

Eppure, si trattava anche di uomini che invece nella pace ci credevano e proprio per una missione di pace erano partiti dal loro paese. In diverse interviste rilasciate in seguito all’uscita, nel 2010, del suo film “20 sigarette” dedicato alla vicenda, da lui ricostruita in quanto testimone e unico sopravvissuto, Aureliano Amadei ha più volte ricordato l’umanità di molti soldati conosciuti alla base, quelli che, contrariamente alle sue aspettative, non si erano dimostrati degli «pseudo Rambo neo fascisti», ma esseri umani, appartenenti a un’umanità (intesa come genere) fatta di contraddizioni e continui spiazzamenti, come quelli che provoca la guerra; esseri umani di umanità (intesa come qualità) a sua volta spiazzante e sorprendente in un contesto atroce come quello che genera guerra.

«L’ideologia non deve mai prevalere sull’umanità. E oggi ricordiamo le vittime di quell’attentato non come eroi, non come soldati, ma come uomini».

Claudia Agrestino

Sono iscritta a Studi dell'Africa e dell'Asia all'Università di Pavia. Amo viaggiare e scrivere di Africa, Medioriente, musica. Il mio mantra: "Dove finiscono le storie che nessuno racconta?"

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