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intervista a Matteo Pelliti, con inedito.

Matteo Pelliti, classe ’72, scrittore e poeta, nasce a Sarzana e si laurea in Filosofia a Pisa, dove vive tutt’ora lavorando per la Provincia, occupandosi di web e comunicazione istituzionale.
Nel 2007 pubblica la sua prima raccolta di poesie, sotto il titolo Versi Ciclabili (Napoli, 2007); a seguire la raccolta di racconti Giocattoli (Pisa, 2010), i versi di Boicottando mongolfiere e ghigliottine (Tapirulan, 2013) e Dal corpo abitato (Luca Sossella Editore, 2015) accompagnato dalle illustrazioni di Guido Scarabottolo e dalla voce di Simone Cristicchi, amico e collaboratore dal 2005, con il quale ha lavorato al monologo A volte ritorno (2015) e L’ultimo condannato (2016). Ha contribuito anche alla realizzazione di testi teatrali: con Cristicchi in Magazzino 18 (2013) con Cristicchi e Manfredi Rutelli a Tacabanda (2015). È stato quest’anno vincitore della decima edizione del concorso di poesia Tapirulan. Tiene, inoltre, dal 2016 a Pisa, un laboratorio di scrittura intitolato Tracce. Percorsi di poesia urbana. Cura anche la rassegna di poesia “Versi in Borgo”. Il suo blog è coltisbagli.

Abbiamo avuto l’onore di intervistarlo, per sapere di più sul suo rapporto con la scrittura, con i modelli letterari, con amici e collaboratori e su cosa significa “essere scrittori”.

Lei è un poeta, ma scrive anche dei racconti. Ci descriva il rapporto che ha personalmente con la prosa e con la poesia, considerando anche che la continua osmosi delle due forme nella scrittura contemporanea è al centro del dibattito letterario.

In realtà, quando ho iniziato a scrivere poesie nell’idea di farle leggere a qualcuno, cioè di pubblicarle, circa 15 anni fa, la poesia era stata fino ad allora per me una pratica di scrittura “privata” e diaristica che mi portavo dietro, come molti, fin dall’adolescenza. Mentre ai racconti, proprio alla forma del racconto, attribuivo il compito di una possibile e mitologica attribuzione della patente di “scrittore” che avrei voluto ottenere. Nei primi anni Novanta inviai una specie di romanzo, o racconto lungo, ai grandi editori, prendendo gli indirizzi postali in una sala telefonica, con tutti gli elenchi delle province italiane, che stava al primo binario della stazione di Pisa Centrale. Ero ai primi anni di università. Conservo le lettere di rifiuto a quel mio romanzo distopico, che si titolava “Il ciclista di Sironi”, e ne ho parlato poi in un racconto dedicato ad Antonio Tabucchi, “Il sogno del ferroviere”, pubblicato in un’antologia curata da Luca Ricci nel 2013, “Sosteneva Tabucchi”. Il mio rapporto con la prosa è, però, strumentale prima ancora che espressivo, nel senso che la prosa è uno strumento con cui fare molte cose diverse (saggi, comunicati stampa, racconti, post, elzeviri, recensioni, discorsi pubblici, prefazioni, postfazioni, parodie…), cioè ha a che fare con molti “oggetti di scrittura” differenti che pratico o che ho praticato, anche per lavoro. La prosa è, per me, un manufatto commissionabile, qualcosa di modulare, qualcosa che porta con sé sempre un elemento “feriale”. Nella poesia, invece, cerco una traduzione esatta, o almeno per approssimazione massima, con le mie necessità espressive: metto in parole scritte il mio stare al mondo, il percepire, l’immaginare, è il tipo di “gioco linguistico” che mi consente la maggiore libertà possibile proprio nella dimensione delle regole, delle costrizioni che mi do, e nella densità lessicale, nel peso specifico di ogni parola. Certe poesie che scrivo possono mantenere un andamento prosastico, come traccia di un appunto mentale. E certe prose possono, per converso, alludere a un ritmo che è della poesia. Ma qui si ferma il livello di “osmosi” per quanto riguarda me, mentre sul dibattito letterario cui fa riferimento la domanda – come su qualsiasi dibattito – sono sempre impreparato, oppure in ritardo.

A chi si ispira maggiormente e perché?

Uno degli autori che mi hanno maggiormente influenzato, anzi, per meglio dire, l’autore che mi ha, direttamente e indirettamente, insegnato a dirmi “scrittore” è Cesare Zavattini. I suoi racconti brevi di “Io sono il diavolo” del 1941 rimangono un modello insuperabile, per me. Così come zavattiniana è l’idea che non si diventa scrittori pubblicando libri ma autorizzando, coltivando, in un certo senso, la propria consapevolezza di “essere scrittore”. Di Zavattini mi piace l’eclettismo, un autore monumentale. Della stessa natura di quello di Giorgio Manganelli, che è un altro mio autore di culto. In poesia i miei riferimenti principali sono stati, per la generazione dei poeti italiani nati nella prima metà del Novecento, Giovanni Giudici, Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto. A lato di questi metterei anche Franco Fortini e Angelo Maria Ripellino. E Giorgio Caproni, ma come una specie di basso continuo, di fondale. Sanguineti, in particolare, è stato per me un modello e un ponte tra poesia ed esercizi di tipo ludolinguistico, penso alla sua militanza nell’OPLEPO, che è stato un campo di grande suggestione e ispirazione per la mia formazione. Sanguineti è un maestro assoluto di divertimenti, in senso proprio musicale. Tra i poeti italiani nati nella seconda metà del Novecento, invece, quello che ho letto maggiormente e avvicinato di più, al quale sono stati accostati alcuni esiti dei miei testi, è Valerio Magrelli. C’è qualcosa nella poesia domestica, privata, che io continuo a sentire come fortemente civile, in realtà. In Magrelli ho sempre trovato una ricerca di esattezza che mi era congeniale. Poi ci sono poeti che consideravo maestri e che sono diventati amici, come Umberto Fiori e Alessandro Fo, e anche i loro percorsi mi hanno influenzato nel cercare la mia “voce” in poesia. Ho prestato molta attenzione anche al percorso poetico di Fabio Pusterla, che ha uno sguardo sul presente sempre molto lucido. Per quel che mi riguarda, in poesia, mi sembra di cercare di tradurre come “da italiano a italiano” quello che scrivo. L’italiano è la lingua di approdo di una traduzione immaginaria tra un iniziale cortocircuito linguistico e il congegno poetico che sta sulla pagina. A volte è la pagina stessa che detta i confini del congegno poetico. Dovrei, poi, dirti, i poeti stranieri che mi hanno formato, e scelgo per brevità di risposta solo Szymborska, tralasciando Borges che pure ha delle poesie degli anni Sessanta bellissime, e Mandelštam che è da leggere e rileggere sempre, come un richiamo vaccinale. Su Szymborska ho il ricordo di averla ascoltata in una conferenza, qui a Pisa, nel 2007: una vecchina minuta con un carisma scintillante negli occhi.

Ha anche dei modelli che attinge del mondo della filosofia, considerando i suoi studi universitari?

Ho iniziato a occuparmi di filosofia del linguaggio in seconda liceo, al quarto anno delle superiori, suscitando l’ira funesta della mia professoressa di Storia e Filosofia: sia perché non studiavo MAI storia, sia perché a filosofia studiavo di più solo quello che mi interessava di più. Più o meno quello che nel Novecento era seguito alla cosiddetta linguistic turn. Così, arrivato a Pisa nel 1991, all’Università ho studiato soprattutto e molto Wittgenstein, che è il filosofo sul quale mi sono laureato e che è un pensatore di grande fascinazione, non solo filosofica. Non so valutare in che misura questi studi agiscano ancora sulle cose che scrivo, ma so che agiscono a un livello piuttosto profondo, direi proprio grammaticale. O, meglio ancora, posturale, nel senso che hanno lasciato in me una certa attenzione a come si deformano i linguaggi. E poi aggiungerei come mio nume filosofico anche Spinoza ma, anche qui, non saprei indicare consapevolmente come il suo pensiero agisca nella mia poesia. Probabilmente sono pensatori che influenzano il modo in cui sono, e di conseguenza il modo in cui cerco di scrivere. Direi così, sì.

Nel suo diario online si definisce un «dilettante in tutte le cose che pratica professionalmente»Perché?

Sì, è una piccola battuta per mettere in frizione i concetti di “dilettante” e “professionista”. Intendevo dire che cerco di dilettarmi, di provare diletto, nelle attività che svolgo con impegno, con “professionalità”, che è una parola passe-partout un po’ vuota e solitamente contrapposta a “dilettante” come emblema dell’approssimazione, della gratuità, dell’imprecisione. Se penso ad alcuni grandi scrittori, penso all’immagine di luminosi dilettanti, e non a “professionisti” della scrittura. Kafka è stato un immenso dilettante, e il più grande umorista del Novecento.

io_luglio2017Cito testuali parole dal suo blog: «perché mi ostino a scrivere raccontini pur non essendone capace? E le poesie?»; inoltre recentemente ha pubblicato un post in cui invitava i giovani poeti a non prendersi troppo sul serio. Pensa che un requisito fondamentale dello scrittore contemporaneo sia l’autoironia e l’autocritica?

Penso che un requisito fondamentale e necessario per il vivente sia l’autoironia, come tecnica di sopravvivenza alla realtà e di critica della realtà. Figuriamoci per chi si mette a scrivere. Figuriamoci per chi si mette a scrivere poesie. L’ironia è antidogmatica, per definizione. A volte ho l’impressione che non si dia sufficiente valore morale alla definizione di “umorista”. Mi piacerebbe molto essere definito un umorista. Un umorista dilettante, direi.  Quel post a cui fa riferimento era un modo molto icastico per invitare tutti a non edificarsi precoci auto-monumenti, magari all’ombra di altri monumenti auto-edificati, e soprattutto in poesia. Questo non vuol dire ironizzare su tutto e tutti, costantemente, che è una deriva cui facilmente i social media ci espongono.

Dal 2005 collabora con Simone Cristicchi. Ci parli di questa collaborazione. Come è iniziata e cosa vi unisce?

La collaborazione con Simone Cristicchi è, prima di tutto, legata a un sentimento di vera amicizia. Amicizia che è nata, appunto, nel 2005 grazie ad un amico comune, Massimo Bocchia, che me l’ha fatto incontrare. Dapprima abbiamo collaborato, Simone, Massimo e io, intorno a quella che era la prima comunità di estimatori di Simone e che si ritrovavano in quello che allora era il suo blog, ideato da Massimo, estimatori che si chiamavano (e si chiamano ancora) “gli slacciati”. Poi ho partecipato con racconti o postfazioni ai suoi primi libri, tra il 2007 e il 2012 e, dal 2013, ad alcuni testi nelle sue produzioni teatrali, come “Magazzino 18” e a un monologo che s’intitola “Cristo si è fermato a Termini”, scritto insieme a Nicola Brunialti, e che Simone sta portando in scena in questi mesi. Ci unisce, come dicevo, l’amicizia e una certa idea di libertà: di ricerca, di pensiero, di recupero della memoria. Non ringrazierò mai abbastanza Simone per l’opportunità unica che mi ha dato come autore in questi anni: poter vedere dei teatri pieni di persone reagire all’unisono, commuoversi, o sorridere magari, per una parola, un’immagine o una poesia che avevo scritto.  È un’esperienza molto bella e gratificante per chi scrive e che il teatro restituisce in modo unico, rispetto ai libri.

“Dal corpo abitato” è la sua ultima raccolta di poesie. Leggendola, si rivive il rapporto che ognuno ha con la propria casa, qualcosa che si lascia abitare, ma che al contempo abita ognuno di noi. Quali esperienze hanno ispirato e maturato in lei questa idea di “casa-corpo”?

“Dal corpo abitato” nasce come riflessione sull’abitare, elemento forte della costruzione delle nostre identità, e dall’idea che le case siano organismi viventi. Qualcosa che abitiamo e che, contemporaneamente, ci abita. È una raccolta di poesie nata non con una cornice tematica prestabilita, semplicemente mi sono accorto nel corso di alcun anni, dopo una separazione, il conseguente divorzio e diversi traslochi, che dovevo fare i conti con questo tema perché nelle poesie che scrivevo ritrovavo sempre riferimenti alle case, raccontavo il mio rapporto con la casa, il dialogo con mia figlia nei vari cambi di casa, la ricostruzione di un nuovo rapporto di coppia che era anche trovare una nuova identità affettiva e abitativa insieme. In particolare c’è un piccolo episodio, che si trova condensato nella poesia “Sistema cardiocircolatorio“: l’acqua calda, nella casa in cui mi trovavo allora, un bilocale in affitto, funzionava bene solo tenendo accessi anche i riscaldamenti. Accettavo questa anomalia, e mi trovavo in pieno agosto, un agosto torrido. Ecco, da questo non sense ho capito che dovevo scrivere sui legami tra casa e biografia, e che potevo farlo attraverso le poesie. Al tema della casa, tra l’altro, dedico l’edizione di quest’anno del laboratorio di letture e scritture che tengo a Pisa, “Tracce”.

Dopo l’intervista, una poesia inedita, gentilmente concessa dall’autore. Il testo è «dedicato a mia moglie Giulia, Fare tardi, che fa parte di una raccolta titolata Dire il colore esatto, che spero possa essere, come si dice “di prossima pubblicazione”, ma che non so ancora quando, se e dove verrà pubblicata».

 

Fare tardi

Se devi andare vai, mi fai, solitamente

quando mi vedi friggere dentro al mio tempo

in attesa che il tuo si sincronizzi col mio.

Ormai l’ho capito che stiamo in due fusi orari

molto prossimi ma sfasati solo

d’una ventina di minuti:

“Ci sono, sono quasi pronta, eccomi”

sono le perifrasi del fare tardi che riconosco

come garanzia – perché faremo tardi –

quando ti aspetto per uscire,

una partenza, un appuntamento,

gli amici già arrivati al ristorante.

Non è importante, in fondo, lo so,

quel minimo scarto nel conto della vita intera,

anzi, riconosco nell’ansia dei puntuali

un che di mortifero, di austero, di inutile puntiglio

preso a placare la paura della Fine, che tanto là

arriveremo in tempo e quando sarà…sarà.

 

“Ancora un minutino”, poi cinque, dieci, quindici,

anche le sveglie mattutine devono arrendersi

con te a un orologio liquido e mobile

che sposta in levare il levarsi, che fa

del fare tardi un abito da corsa, una rincorsa

inarrestabile del giorno, l’inseguimento del tempo

che non basta, di un resto che poi manca.

 

In questo prender tempo, nella fame d’attimi

che fa raggranellare quel minuto in più di sonno,

sta una battaglia contro la ferialità del giorno,

la sua indisponente concretezza quotidiana

che fa cadere, incessante, una pioggia di secondi

dentro ogni ora e di ore – mai bastevoli – nel giorno.

Capisco questa tua guerriglia partigiana,

ma un volta vorrei con te far cambio di casacca,

giocare a parti inverse d’orologio:

tu sulla soglia, pronta, un poco sui carboni ardenti

di una qualche norma oraria, inutile quanto vuoi,

da rispettare, e io svagato, lento, dentro al mio ritardare.

 

Finale: c’è un’occorrenza che segna, infine,

la mia resa ed è quando, ormai fattosi tardi

per tutto quanto fin qui su narrato,

sei tu a incitarmi “Allora, andiamo?”,

mentre mi guardo le stringhe, immobile, in tua attesa.

Poi ripartiamo,

perché ci amiamo.

 

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