Cultura

L’onirico marchese. Salvador Dalì

di Giovanni Cervi Ciboldi

“La differenza tra i surrealisti e me è che io sono surrealista”. Non si pecca d’arroganza se si pronuncia questa frase. Non se si è Salvador Dalì. Un pò azzardato, certo, anche se rende l’idea di che cosa rappresenta il pittore spagnolo (1904-1989) per tutto quel movimento che dal 1924 fa dell’irrealtà onirica il suo punto di riferimento.
La fama di Dalì fa si che l’identificazione dell’avanguardia più longeva del secolo con il suo massimo esponente sia quasi naturale. Ma surrealismo non fu un solo uomo: Mirò, Magritte e Tanguy non furono da meno. La Francia era infatti un potente polo di attrazione per gli artisti di questo tipo e qui arriveranno negli stessi anni Max Ernst (per esporre) e Man Ray (per trasferirsi). Eppure, ad aver colpito di più l’immaginario collettivo e ad essere immediatamente riconosciuto dal pubblico profano è tutt’ora lo spagnolo, elevato a rappresentante di un intero movimento.
Se orologi sciolti ed elefanti dalle gambe lunghe sono tele dipinte, il surrealismo, come molte avanguardie, toccò più arti: non fu infatti, come spesso si pensa, un’esclusiva della pittura ma, anzi, essa non ne fu neppure la culla.
Anticipato dallo “stream of consciousness” di Joyce, e come molti influenzato dalla moderna psicanalisi Freudiana, fu Andrè Breton, poeta e teorico del movimento, a delineare per primo il surrealismo, definendolo “automatismo psichico puro […] in assenza di […] ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale […] da esprimere sulla carta, in poesia o letteratura” (a differenza del Dada, che da subito si espresse come arte visiva).
E se in Apollinaire, Prévert e Artaud si può rilevare la realizzazione dell’intento di Breton, si deve considerare che le forme in cui l’irrazionalità descritta dal poeta si realizza in modo più diretto sono quelle figurative.
Il surrealismo ebbe inoltre la fortuna di nascere poco dopo una svolta epocale per l’arte, un’invenzione che subito si tramutò in fenomeno culturale. Solo trent’anni prima, in Francia nasceva il primo sistema per riprodurre il movimento in modo credibile: la “settima arte”, il cinema.
La neonata avanguardia non avrebbe potuto non sfruttare l’aspirazione del cinema ad essere considerato al pari delle arti classiche e non avrebbe potuto rinunciare ad unire le potenzialità del grande schermo: un condensato di pittura, teatro e letteratura (non ancora musica) con i dogmi di un movimento che, per sua stessa natura, bene si adattava a questa nuovo modo di vedere la realtà.
Continuando quell’approccio al cinema che, dai cortometraggi sperimentali di Méliès (tra cui Voyage à travers l’impossible, 1904) alle prime regie di Renè Clair (Entr’acte, 1924) stava mostrando un mondo prima sconosciuto, Dalì mise genio e follia al servizio di Luis Bunuel, per il quale creò sia il soggetto che la sceneggiatura per “Un chien andalou”: un delirio realizzato con un susseguirsi di scene slegate, per un totale di 16 minuti di quello che può essere realmente considerato, data la sua completezza, il vero manifesto del surrealismo. A compensare l’assenza di chiarezza semantica ci pensa l’enorme impatto visivo ed espressivo, tanto che l’immagine iniziale dello squarciamento dell’occhio (da vedere) rimane impressa nell’immaginario collettivo della generazione del tempo. Il forte impatto psicologico, tutt’ora vivo, e il significato legato alla psicoanalisi rivivono poi l’anno successivo ne “L’age d’or”, lungometraggio ancora forte della protratta collaborazione con lo spagnolo, al quale, se non bastasse, si aggiunge ora Max Ernst.
Fu poi Man Ray, emigrato dagli stati uniti per raggiungere Montparnasse nel 1921, a continuare sul filone cinematografico e artistico (con le dovute differenze) iniziato dalla visionarietà di quegli artisti che, al di fuori di ogni possibile classificazione, lasciarono un’impronta su qualsiasi arte su cui mettessero la mano.
Un’arte che, in quella spettacolare forma che gli diede Dalì, riprende vita (mancava in italia da 50 anni) nella mostra milanese “Il Sogno si avvicina” allestita da Oscar Tusquet Blanca (collaboratore del pittore spagnolo) in un suggestivo ambiente creato per l’occasione.

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