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Le Recensiony | Arrival (ft. la fantascienza)

Se dovessi paragonarlo ad una giornata, questo film sarebbe una singola parte della stessa. Più precisamente sarebbe il momento in cui sto scendendo le scale e non mi ricordo se ho spento la luce della stanza, quell’istante in cui mi ricordo di dover fare una certa cosa, provo a farla e mi accorgo che avevo già provveduto, nonostante avessi rimosso ogni ricordo e quindi non mi resta che fare i complimenti al me stesso del passato anche se questo significa essere rimasti al buio.

Non datemi dello squilibrato, non sono mica iscritto a matematica. Lasciatemi giusto qualche riga per spiegarmi meglio, e magari insultare qualche altra facoltà.

Il film è uscito da noi quest’anno per la regia di Villeneuve che si aggiudica il terzo posto nella mia classifica sulla fantascienza. Proprio di quest’ultima vorrei ragionare stavolta, in maniera libera e senza concentrarmi troppo sul film, anche perché significherebbe rovinarne la visione.

Cominciamo con un ragionamento banale, sperando di arrivare ad un risvolto più intelligente o quantomeno interessante. Il bello della fantascienza è che racchiude la magia del fantasy, cioè qualcosa di irreale, e la possibilità del reale: in poche parole abbiamo la scienza. Senza l’immaginazione la scienza sarebbe ferma al tangibile e all’empirico. Vedo una cosa tonda, capisco che si sposta con meno fatica di ogni altra forma. Informazione registrata, nessuna utilità individuata. Sta alla fantasia immaginare che quel sasso sferico potrebbe essere utilizzato come ruota e sta alla fantasia adattare quell’idea al bisogno. La fantascienza allo stesso modo utilizza dei racconti per rielaborare la realtà e veicolare dei messaggi. I primi esempi di cinema con la C maiuscola possono essere fatti risalire a questo genere, basti pensare a Viaggio nella Luna di Méliès o a Fritz Lang con il suo Metropolis. Se il primo gioca e ammalia, il secondo sconvolge e critica. E da lì in poi la categoria continuerà su quella scia, con Ultimatum alla Terra negli anni ’50, con 2001: odissea nello spazio nei ’60, Star Wars nei ’70, con Blade Runner negli anni 80 e L’uomo bicentenario nei ’90. Tutti questi hanno in comune la sperimentazione e la rottura con i canoni. Méliès la crea, Lang la rende un manifesto della modernità, Wise è tra i primi che la rende un punto d’incontro più che di scontro, Kubrick la rende un pretesto per un’analisi introspettiva, Lucas la usa per creare un’epopea, Scott la sfrutta per farci riconsiderare la realtà, Columbus la rende drammatica e quanto mai umana. Il soggetto di tutti questi esempi rimane sempre lo stesso: la fantascienza. Ma se queste opere adoperano un genere per comunicare, il nostro Arrival lo manipola per la comunicazione in quanto tale. È un piccolo cavillo che voglio usare per sottolineare la differenza fra il COSA si dice e il COME si dice. Mettere al centro del discorso il discorso stesso: le parole e il loro potere come arma, ma anche come strumento, perché non è chiaro quale sia il vero significato nella lingua degli eptapodi. E nemmeno nella nostra a dirla tutta. Questa la base su cui prende il via il film, ma lo capiremo man mano, perché inizialmente ci sembra tutt’altro e, col senno del poi, si viene a creare un loop tempo-mentale nello spettatore, il quale dovrà ricollegare tutti i puntini e andare ad incasellare ogni tessera in un puzzle che fino a quel momento sembrava chiaro. I pezzi vengono mischiati e poi ricomposti nella giusta sequenza, una specie di Memento che salta sul Tardis per guardare nel pensatoio di Silente. Non ci avete capito nulla? Meno male. Sappiate soltanto che quello che state vedendo era, è, e prima o poi sarà.

Data la breve digressione sul ventesimo secolo non posso che fare un piccolo paragone con i top degli anni duemila. La classifica, assolutamente inattaccabile, che ho messo in piedi è composta da Interstellar, insuperato al primo posto; ha avuto l’onore e onere di riportare ai fasti un genere talvolta bistrattato o quantomeno sottovalutato; riesce a trasporre sullo schermo una dura critica all’egoismo umano (riassunto nella frase: “Dobbiamo pensare non come individui, ma come specie”) e l’incuria verso il nostro stesso pianeta; appena sotto troviamo Moon di Duncan Jones che non si descrive, si guarda e basta. Mischia la psicologia alla scienza e mette in scena quello che potrebbe essere benissimo una tortura degna dell’inferno dominato dal contrappasso. E qui arriviamo ad Arrival che scalza District 9, al terzo posto ormai da molto tempo e battuto per un soffio; Blomkamp porta al cinema il suo Sudafrica e lo fa interpretare agli alieni: gli emarginati arrivano ora dallo spazio profondo e il regista cerca, attraverso la metafora, di descrivere la divisione sociale che continua ad esistere nella sua terra e, contemporaneamente, il disinteresse della vita di chiunque al di fuori di noi stessi.

Arrival stupisce gli amanti dei viaggi del tempo, non quelli alla Doctor Who, ma quelli alla Donnie Darko dove non si capisce concretamente cosa stia succedendo. O meglio, quando stia succedendo. L’intento degli alieni è un’utopia che sembra quanto mai tale, ma quanto mai auspicabile se non necessaria, non fra tremila anni come ammette Jerry, ma al più presto. Il film ha comunque qualche pecca e non sembra puntare alla perfezione magniloquente. Da una parte guarda al progresso collettivo, ma contemporaneamente sembra scritto da Trump, nel tentativo di infamare i Cinesi e i Russi. Gli USA, pur rimanendo paladini, stavolta non sono dieci passi avanti a tutti e, nonostante la protagonista sia a stelle e strisce, lavora per l’umanità piuttosto che per la sua motherland, come testimoniato da quell’human scritto sulla lavagnetta. E ancora, i militari, e quindi la forza bruta, sono secondi alla forza intellettuale degli accademici e degli studiosi fin dall’inizio, senza il solito cliché del salvataggio in extremis, che permane comunque (per intenderci: stavolta gli scienziati fanno gli scienziati prima che l’esercito faccia l’esercito e non dopo, quando devono riparare al danno delle armi). Senza dimenticare una critica a quelli che fomentano i peggiori sentimenti per una manciata di visibilità, si vedano i soldati “ribelli”.  La regia richiama spesso il 2001 di Kubrick, nella simmetria delle inquadrature, nei cambi di gravità all’interno della navicella, nei controluce su campi lunghi. Villeneuve riesce a mettere a frutto i canoni del genere spostando il focus sulla comunicazione e sul suo potere, lascia lo spettatore meravigliato nel rendersi conto di quanto sia accaduto lì davanti ai suoi occhi senza che neanche se ne accorgesse, e riesce ad offrire a chi la vuole una storia con un finto lieto fine (visto il futuro della protagonista). Come Interstellar, è uno di quei film da vedere, rivedere e riguardare ancora una volta solo per essere sicuri di aver colto davvero tutto quanto.

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