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A clockwork orange – Arancia meccanica

Giovedì, tra gli avvenimenti degni di nota della settimana – a parte mangiare il primo cioccolatino del calendario dell’Avvento – ecco che a Radio Aut è iniziato il nuovo ciclo di Sussurri e Grida, incentrato sulla tematica della violenza. Si è dato il benvenuto a dicembre con la proiezione di Arancia meccanica di Stanley Kubrick (1971).
Consapevole che, negli ultimi quarant’anni, sono stati versati fiumi di inchiostro sull’argomento, mi accingo a dire la mia in rappresentanza di Birdmen.
Tratto dall’omonimo romanzo di Anthony Burgess (1962), il film racconta la vicenda – che ha come sfondo una Londra del futuro non meglio definito – di Alex DeLarge (Malcom McDowell), ragazzo che fa parte attivamente di una società perversa e decisamente votata alla ultra-violenza. È proprio la sua voce, fuori campo, a commentare le bizzarre immagini (in cui la violenza viene stilizzata facendo ricorso a ralenti e accelerazioni, oltre ad una colonna sonora d’eccezione) che si succedono sullo schermo; e la pacatezza della sua narrazione stride in maniera agghiacciante con quello a cui assistiamo.
È la figura stessa di Alex, infatti, ad apparire, da subito, inquietante e disturbante: giovane di bella presenza, carismatico e narcisista – è a capo di un gruppetto di solerti suoi imitatori, tanto nel modo di vestire quanto in quello di agire; non fatica a trovare la compagnia delle signore, al plurale, non a caso – è una sorta di dandy moderno, cultore della musica classica, personaggio dai modi impeccabili e dal linguaggio sciolto, anche nelle situazioni più drammatiche. Se ci pensiamo, “Alex” può essere anche letto come “a-Lex”, senza legge – senza vincoli né morali né sociali – e quindi potenzialmente (e concretamente) senza freni. Come un degno rappresentante ante litteram del movimento punk, è nichilista, menefreghista, anarchico. Nonostante – o proprio perché – egli indugi in atti terribili (per di più, appunto, perpetrati con la massima disinvoltura possibile: paradossale e terrificante la scena dello stupro operato sulle note di Singin’ in the rain), noi spettatori non possiamo non rimanere ammaliati, affascinati da questo giovane strano “come un’arancia ad orologeria”. Lo seguiamo attraverso grottesche stanze arredate da architetti stravaganti, per le via di una città ostile, dalla prigione alla clinica. Incarnazione, forse, del lato oscuro che alberga in ognuno di noi, quello che ci spinge a forzare i limiti della nostra moralità, assistiamo alle sue peripezie e al suo tentativo di redenzione, partecipi e col fiato sospeso.
Proprio la stessa società che ha prodotto un individuo di tal fatta, a un certo punto, si arrogherà la prerogativa di volerlo “aggiustare”, di voler cioè deviare e indirizzare altrove il suo istinto al male e alla violenza gratuita. “È possibile che questo avvenga?” è la grande domanda che accompagna la seconda parte del film, dunque; ma soprattutto: “ se sì, come?”.
Forse è qui che scatta il passaggio fondamentale della pellicola, non sempre colto da chi ne ha voluto dare una lettura semplicistica e superficiale: ben lungi dal trattarsi di un’esaltazione, di un panegirico della violenza fine a se stessa, questo film denuncia in filigrana che “violenza genera violenza”. Più che di cura bisognerebbe parlare di tortura: riparare l’anima “malata” di Alex, fare diventare ciò che è naturale un qualcosa di artificiale, meccanico, rappresenta un ulteriore stupro, operato questa volta a danno del carnefice che ora diventa vittima, in un incessante circolo vizioso.
Il film si apre con un’inquadratura degli occhi allucinanti, freddi, spietati del protagonista. Gli stessi occhi che saranno tenuti sbarrati a forza dal dottore incaricato di curarlo dal suo male. Quegli occhi che, alla fine, nell’ultima scena, ci invitano a aprire nuovamente i nostri e a cogliere il senso ultimo della vicenda.
Assurdo. Disturbante. Stilisticamente e registicamente impeccabile. Un capolavoro del cinema moderno.

Vi saluto ricordandovi il prossimo appuntamento della rassegna con Funny games di Michael Haneke (2007).
Buona settimana!

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