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Arrival – L’indispensabilità del comunicare

Recentemente candidato in 7 categorie per gli Oscar 2017, tra le quali miglior regia e miglior film, dal 19 gennaio nelle sale italiane è possibile apprezzare Arrival, ultima opera del regista canadese Denis Villeneuve, basato sul racconto Storia della tua vita, incluso nella raccolta di racconti Storie della tua vita (Stories of your life) di Ted Chiang.

Seguendo il sentiero spielbergriano tracciato da Incontri ravvicinati del terzo tipo e ET, in cui il  contatto umano-alieno prende la forma di un incontro tendenzialmente pacifico rivolto alla comprensione e alla relazione/scambio, il regista costruisce la sua opera, presentata anche nel settembre 2016 alla 73sima Mostra del cinema di Venezia: una pellicola fantascientifica adulta che guarda più alla mente che ai corpi, che gioca con la ragione più che con l’azione, distante dai mainstrem disaster movie e più concettuale/intellettuale, ricordando per esempio nelle dinamiche degli scontri “politici” District 9, ma con molte meno sparatorie e con alieni di forma diversa, da gamberoni a polipi giganti (chissà perché sempre forme marine; cantavano i Bluvertigo ormai qualche anno fa in una canzone coerente col tema (Altre forme di vita): “Se non esistessero i pesci riusciresti ad immaginarli?”)

Improvvisamente arrivano in diverse zone del globo terrestre 12 navicelle spaziali. Noi osserviamo la situazione nel Montana, negli Stati uniti; un guscio si erge nel cielo come potrebbe essere in un quadro di Magritte, è una di quelle navicelle.

La linguista Louise Banks (Amy Adams) – insegna all’università e sembra aver perso una figlia per colpa del cancro – è selezionata per poter comunicare con gli alieni all’interno di queste navi; un elicottero dell’esercito le atterra nel cortile di casa in piena notte accendendo il buio di luci (i cinefili più appassionati avranno certamente ripensato a Incontri ravvicinati del terzo tipo per la scena e a L’arrivo di Wang dei nostrani Manetti Bros. per la situazione generale)

Perché siete venuti? È questa la semplice domanda rivolta agli extraterrestri che percorre tutto il film, e la risposta sarebbe altrettanto semplice da ottenere se non ci fosse un problema fondamentale: la differenza di linguaggio, l’incomunicabilità.

Louise insieme al fisico Ian Donnelly (Jeremy Renner) e ai membri del corpo speciale si introducono nel guscio-navicella, che ha una gravità diversa rispetto a quella terrestre, percorrono il corridoio e arrivano davanti a uno schermo bianco dietro il quale vi sono gli alieni. Noi spettatori osserviamo gli studiosi che davanti ad uno schermo quasi cinematografico incontrano gli eptapodi, e lì  tentano di comunicare. Decifrare delle particolari forme circolari che costituiscono il linguaggio delle entità extraterrestri, quasi un surrogato alieno delle macchie del test di Rorschach, diventa l’obiettivo indispensabile per la reciproca comprensione. I progressi nella conoscenza del nuovo linguaggio attivano in Louise una sorta di processo psicanalitico di conoscenza di sé e del proprio modo di pensare che può mutare ampliando gli orizzonti e cambiandone le basi, d’altronde il film ruota attorno all’ipotesi della relatività linguistica di Sapir – Whorf la quale afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla.

La trama si sviluppa lungo questo percorso di studio del linguaggio alieno che procede a rilento, quasi brancolando nel buio, fino all’inevitabile tensione finale prologo dello scontro apocalittico quando, improvvisamente, tutta la situazione si risolve grazie all’illuminazione fondamentale della linguista che comprende la soluzione in un colpo di scena “temporale”, i flash back che si rivelano essere flash forward, poco prima che tutto esploda e che la situazione degeneri. Può ricordare un classico colpo di scena alla Christopher Nolan, può ricordare il finale di Interstellar, ma ciò che in Interstellar è complesso e complicato, in Arrival è complesso ma assolutamente comprensibile, ciò che in Nolan è un boato assordante e fastidioso in Villeneuve è un affascinante suono (fin troppo) tenue.

Arrival è un film sul linguaggio e sulla comunicazione a più livelli e il comunicare con gli alieni è solo il livello più superficiale. L’incomunicabilità tra uomini ed extraterrestri è una metafora dell’incomunicabilità tra gli uomini stessi, tra nazioni diverse, tra lingue culture e modi di pensare differenti. Tutto il discorso riguardante il “riformulare” il pensiero che sottende il film è applicabile anche nei rapporti tra gli uomini, e il finale lo dimostra: solo quando il modo di pensare cambia e si può comunicare con gli alieni è possibile finalmente comunicare anche tra Stati diversi e fermare l’imminente conflitto.

Nel mezzo di tutto questo, un’inutile, insensata e immotivata esplosione che sarebbe stata benissimo in un Independence Day qualunque ma che qui non sembra altro che un pesce fuor d’acqua, o meglio un polipo fuor d’acqua o ancora meglio un eptapodo fuori dalla sua navicella.

Esplosione a parte, Denis Villeneauve propone un’ottima opera fantascientifica adulta con una regia sapiente e interessante, il lavoro su Arrival è perfettamente propedeutico per l’atteso sequel di Blade Runner che sarà diretto proprio dal regista canadese.

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