Attualità

La peste delle derive autoritarie

La peste aveva ricoperto ogni cosa: non vi erano più destini individuali, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da tutti.

Così scriveva Albert Camus nel suo romanzo La Peste. Lo scrittore francese racconta l’epidemia che colpisce la città algerina di Orano. Il romanzo è un appello alla solidarietà: bisogna aiutarsi l’un l’altro in quanto tutti essere umani, perché siamo tutti sotto la stessa tempesta ma non sulla stessa barca. Quando il coronavirus sarà debellato e tutto tornerà alla normalità, noi cittadini italiani potremmo riesercitare tutti quei diritti che per il momento sono stati legittimamente sospesi. Ma non sarà così in tutto il mondo, perché secondo Amnesty International e Human Rights Watch, ora più che mai, diversi leader autoritari stanno approfittando dell’emergenza per reprimere il dissenso, esercitare un controllo repressivo sulla popolazione o su alcune minoranze e far passare leggi emergenziali antidemocratiche.

In due Paesi, di cui uno dell’UE, Ungheria e Filippine, siamo a un passo dalla dittatura. E scriveva bene Camus: “Ciò che è vero per i mali di questo mondo è vero anche per la peste: può servire a nobilitare qualcuno”.

Il 30 marzo il Parlamento ungherese ha approvato una nuova legge che autorizza l’esecutivo a governare, ai sensi dello stato d’emergenza, attraverso decreti, senza una data di scadenza e senza alcuna clausola tale da consentire al parlamento di esercitare un controllo effettivo: Orbàn può bloccare le elezioni e abrogare leggi già in vigore. “Questa legge istituisce uno stato d’emergenza privo di controlli e a tempo indeterminato e dà al governo di Viktor Orbán via libera per limitare i diritti umani. Non è questo il modo di affrontare la crisi posta dalla pandemia di Covid-19“, ha dichiarato David Vig, direttore di Amnesty International Ungheria. Inoltre ha disposto che chiunque diffonda informazioni false o distorte che interferiscano con “l’efficace protezione” della popolazione o crei “allarme e agitazione” potrà subire una condanna fino a cinque anni di carcere.

“Non esiterò. I miei ordini per la polizia e le forze militari, anche per la polizia dei barangay, sono di colpire a morte in caso di scontri che mettano le vite in pericolo. Avete capito? A morte. Invece di causare problemi, vi manderò nella tomba. Con queste parole trasmesse in televisione il 1° aprile 2020, il presidente di estrema destra delle Filippine, Rodrigo Duterte ha autorizzato polizia ed esercito a sparare chiunque violi la quarantena. Gli ordini sono arrivati in seguito a una serie di proteste che hanno interessato la capitale Manila e la città di Quezon City. La maggior parte dei cittadini è molto povera e sopravvive grazie a lavori giornalieri, ora impossibili da trovare per via dell’emergenza, per questo, in molti sono scesi in piazza per chiedere un aiuto da parte del Governo. Amnesty International, che ha raccolto alcune testimonianze delle manifestazioni, riporta che i cittadini sono stati attaccati con violenza dalle forze dell’ordine e picchiati con bastoni di legno. Secondo quanto riportano i dati della polizia locale, già 17mila persone sono state arrestate per violazione delle misure restrittive e, sono state anche diffuse notizie di punizioni inumane tra le quali stare seduti per ore sotto al sole cocente o essere reclusi in gabbie per cani.

In Turchia, Egitto e Turkmenistan a rischio, ancora più di prima, è la libertà di stampa e d’informazione.

Le opposizioni e i membri del personale medico hanno criticato il Presidente turco Erdogan per essersi rifiutato di imporre misure rigide di contenimento, raccomandando ai cittadini una quarantena su base volontaria. Per le critiche alla sua autorità ci sono stati centinaia di arresti e alcuni medici si sono dovuti scusare pubblicamente dopo essere stati arrestati. La pandemia da Covid-19 ha aggiunto un ulteriore livello alla repressione della libertà di stampa in Turchia, dove con la scusa di combattere la disinformazione, vengono presi di mira i giornalisti. A partire dal colpo di Stato del 2016 sono stati chiusi almeno 180 organi d’informazione e circa 2500 giornalisti e altri operatori dell’informazione hanno perso il lavoro. Solo il mese scorso almeno 18 tra portali e blog sono stati bloccati e molti giornalisti sono stati arrestati e accusati di terrorismo a causa dei contenuti dei loro articoli o dei loro post. Le prove contro i giornalisti sono spesso fabbricate e del tutto infondate, e vengono processati sulla base di vaghe e generiche norme antiterrorismo o di altre leggi che limitano il diritto alla libertà d’espressione.

In Egitto la situazione è identica. Sempre dal 2016, quando numerosi organi d’informazione hanno criticato la decisione del governo di cedere le isole di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita, le autorità egiziane hanno sottoposto a una lunga serie di violazioni dei diritti umani giornalisti e altri operatori dell’informazione che avevano solo espresso le loro opinioni e sono finiti in carcere per inesistenti accuse di terrorismo. All’aumento della censura ha fatto seguito, l’anno successivo, l’acquisizione della maggior parte dei media privati egiziani ad opera di gruppi legati all’intelligence militare. La scrittrice Ahdaf Soueif e altre tre persone sono state arrestate al Cairo durante una piccola manifestazione anti-governativa organizzata per protestare contro le condizioni durissime imposte ai detenuti e la mancanza di sicurezza che rende le celle, senza standard igienici minimi, dei focolai di epidemie. In Egitto, a detta di Amnesty International, è in forza da 5 anni “una repressione senza precedenti” che l’epidemia non fa altro che legittimare. E l’Egitto ne approfitta anche per tacere sul caso di Giulio Regeni, poco sappiamo della sua tragica morte e tuto tace anche sulle condizioni dello studente Patrick Zaky, da mesi detenuto ingiustamente nella città di Mansoura, e sottoposto a torture. Il riconoscimento da parte dell’Italia della cittadinanza onoraria, potrebbe essere un primo passo verso la sua liberazione, ma non è stato ancora fatto. (Lo Stato italiano può concedere la cittadinanza a uno straniero per un merito particolare o quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato come stabilito dall’art. 9 comma 2 della legge sulla cittadinanza).

Reporters sans frontières ha riferito invece che il presidente del Turkmenistan Gurbanguly Berdymukhamedov ha dichiarato che nel Paese non c’è alcun caso di coronavirus, nonostante questo confini con l’Iran, che ha confermato quasi 60mila pazienti positivi alla COVID-19. E a conferma di ciò ha oscurato qualsiasi informazione riguardo la pandemia su Internet e sui media. Ha ordinato che ogni riferimento all’emergenza venisse rimosso dalle brochures distribuite in ospedali e scuole.

Un luogo preso di mira da ripetute violazioni dei diritti umani è il carcere. “Vi è sempre qualcuno più prigioniero di me, era la frase che riassumeva allora la sola speranza possibile”. Anche noi come i protagonisti de La Peste, abbiamo pensato in questi mesi a chi “sta peggio di noi”, ai detenuti delle carceri magari, ingenuamente paragonando la nostra situazione alla loro. Indubbiamente la situazione delle carceri è molto delicata e difficile anche in Italia, se ne parla tanto e bisogna continuare a parlarne. Ma in molti Paesi asiatici come in Iran la situazione è doppiamente tragica e i detenuti sono sottoposti a torture, pestaggi e morte.

Organi di stampa indipendenti e organizzazioni per i diritti umani hanno segnalato diversi casi di positività al tampone nella popolazione carceraria, per questo in almeno otto carceri dell’Iran molti prigionieri hanno iniziato scioperi della fame per chiedere rilasci, tamponi, fornitura di prodotti per la sanificazione degli ambienti per prevenire un contagio da Covid-19. Il 30 e il 31 marzo le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro i detenuti che protestavano nelle prigioni di Sepidar e Sheiban, situate nella città di Ahvaz. Il capo della polizia ha ammesso che le Guardie rivoluzionarie e i paramilitari basiji hanno represso le proteste subito dopo che i detenuti avevano dato alle fiamme dei contenitori per la spazzatura. Secondo Amnesty International, le forze di sicurezza hanno reagito usando gas lacrimogeni e proiettili, uccidendo in questo modo 35 detenuti, ferendone altre centinaia. Nella prigione di Sheiban i protestatori sono stati denudati e picchiati nel cortile interno. Un altro prigioniero morto in circostanze da chiarire si chiamava Danial Zeinolabedini. Dopo aver preso parte alle proteste, è stato trasferito in un altro carcere e ha telefonato disperato ai suoi familiari chiedendo aiuto. Il 3 aprile le autorità hanno avvertito i suoi familiari che il detenuto si era suicidato e hanno ordinato di andare a ritirare la sua salma. Il corpo era pieno di ematomi e ferite da coltello, segni di torture più che probabili.

Questi sono solo alcuni degli Stati del mondo in cui si stanno verificando delle repressioni feroci ai diritti dei cittadini approfittando della pandemia di cornonavirus, ma ce ne sono molti altri: Polonia, Thailandia, India, Brasile, Russia, Israele, Paraguay, Cambogia, Uganda, Bangladesh… Una lista tristemente lunga di Paesi dove queste derive autoritarie probabilmente avranno delle conseguenze anche una volta terminata la fase sanitaria dell’emergenza, perché probabilmente non verranno debellate. Un bacillo di una peste diversa, “che non muore nè scompare mai”, che nel corso della Storia abbiamo a imparato a riconoscere dalle stesse caratteristiche con cui si ripresenta: privazione di libertà e tolleranza, repressione delle minoranze e di ogni altra diversità. È un virus dal quale è necessario guarire tutti insieme, per scongiurare mali peggiori. Non ci sono destini individuali, ma una storia collettiva.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *