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Shady Habash e le voci contro la censura egiziana

“You lived in gardens, we lived in jails” cantava il musicista egiziano Ramy Essam nel 2018, riferendosi al presidente Abdel Fattah Al-Sisi e ai suoi concittadini. Nella sua canzone più famosa, Balaha, è chiaro l’intento canzonatorio e di denuncia nei confronti di un regime autoritario che da anni soffoca le libertà del popolo. Balaha ha raggiunto cinque milioni di visualizzazioni su YouTube, ma il prezzo da pagare per questo grido nel silenzio è stato alto, altissimo.
Otto dei collaboratori di Ramy Essam sono stati incarcerati con l’accusa di appartenere a un gruppo terroristico e diffondere fake news, mentre il cantante è stato esiliato in Svezia. Shady Habash, il videomaker di 24 anni che ha diretto il video musicale della canzone, è morto il 2 maggio scorso nella prigione di Tora, al Cairo, dove aveva trascorso gli ultimi due anni in attesa di sentenza.
Ma come è stato possibile arrivare al punto in cui uno Stato consideri legittimi processi così arbitrari e punisca chiunque critichi, in qualsiasi forma, il suo operato?

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Il videomaker Shady Habash su un set

L’attuale presidente dell’Egitto, Al-Sisi, è salito al potere nel 2013 spodestando con un golpe il successore di Mubarak, Mohamed Morsi, e dichiarando sospesa la Costituzione.
Il paese aveva già conosciuto lunghi periodi di governo autoritario, a partire dai trent’anni di dittatura di Mubarak; le Primavere arabe avevano però fatto sperare in una rottura con quel tipo di regimi, fortemente oppressivi, corrotti e incapaci di rispondere alle esigenze della popolazione. Purtroppo così non è stato, e l’ascesa di Al-Sisi ha praticamente annullato, attraverso metodi repressivi, ogni risultato della Primavera egiziana.

È in questo clima sociale che si stagliano le parole di Balaha:and when you were begging everyone for a dime, your courtiers were gaining in no time / You lived in gardens and we lived in jails / your mumble dumble awkward face”. Con questa strofa, Essam condanna la corruzione del governo e si prende gioco dell’ex-generale divenuto presidente della nazione.
Balaha, infatti, significa letteralmente “dattero”, ed è il nome di un personaggio di un noto film egiziano famoso per essere un bugiardo patologico. Questo nomignolo riferito al presidente è stato ampiamente adottato dagli oppositori del regime. Nelle altre strofe della canzone, Ramy Essam fa chiari riferimenti anche all’incapacità di Al-Sisi di mantenere la promessa di portare all’Egitto un concreto progresso economico-sociale.
Uno squarcio potente nel silenzio forzato, proveniente dalla voce dell’uomo diventato simbolo della protesta egiziana già dalle sue performance in piazza Tahrir durante la Primavera del 2011.

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Il peso di queste parole, però, non ha tardato a sconvolgere la vita di coloro che avevano contribuito alla loro diffusione. Molti sono gli elementi che accrescono la contraddittorietà della vicenda, specialmente quando si arriva alla morte di Shady Habash per quelli che sono stati definiti “motivi di salute non identificati”.
Un rappresentante anonimo dell’associazione Libertà di pensiero ed espressione del Cairo ha dichiarato che il ragazzo avrebbe dovuto essere rilasciato già da tempo, essendo scaduto il termine legale della carcerazione preventiva; lo stesso Shady scriveva, nell’ultima lettera risalente all’ottobre scorso, come ogni 45 giorni andasse di fronte a un giudice che lo condannava ad altri 45 giorni di prigione, senza nemmeno guardare né lui né le carte del caso per cui gli altri erano stati rilasciati sei mesi prima.
Tutto ciò non fa altro che mettere in luce la vera colpa per cui Al-Sisi voleva punire il ragazzo, pilotando le autorità giudiziarie: aver inquadrato uno spiraglio di rivoluzione nella coltre di censura del suo Paese.

Questo episodio macchia gravemente la correttezza del sistema giudiziario egiziano – sistema che, peraltro, non è nuovo a simili soprusi. Risale, infatti, solo a pochi mesi fa l’arresto del ricercatore Patrick George Zacky Il ragazzo, iscritto a un master internazionale dell’università di Bologna e attivista per i diritti umani, a febbraio era stato fermato al suo rientro in Egitto per supposta istigazione alla rivolta contro le istituzioni: aveva pubblicato dei post su Facebook che riguardavano le proteste contro Al-Sisi. Patrick Zaky si trova tuttora in carcere.

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Il presidente egiziano Al-Sisi

Nel frattempo, in Italia si era da poco rinnovato il cordoglio per Giulio Regeni in occasione dell’anniversario della sua morte, avvenuta nel 2016. Regeni stava conducendo ricerche sulla situazione sindacale egiziana ed era entrato in contatto con sindacalisti oppositori di Al-Sisi. Dopo la scomparsa, il suo corpo venne ritrovato senza vita, con evidenti segni di torture, nei pressi di una prigione dei servizi segreti egiziani. Ancora oggi le autorità egiziane omettono la verità non pronunciandosi chiaramente sul caso.

Somiglianze inquietanti fra queste ed altre storie, che parlano tutte di libertà strangolata dalla violenza di un regime con i paraocchi.
La street artist Laika aveva realizzato a Roma, a pochi passi dall’Ambasciata d’Egitto, un murales che rappresentava insieme Zaky e Regeni, con un messaggio di speranza. Sebbene sia stato rimosso dopo poco, aveva contribuito a focalizzare l’attenzione mediatica sulla vicenda. La parola che si legge in basso al centro è, non a caso, “libertà”.

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Il murales di Laika raffigurante Giulio Regeni e Patrick Zaky

Il 5 maggio scorso uno dei legali di Zaky, Walid Hassan, ha reso noto il trasferimento del giovane dal carcere di Mansura a quello di Tora, lo stesso luogo in cui tre giorni prima aveva perso la vita Shady Habash.
Secondo diverse ONG, il loro destino è stato condiviso da circa 60.000 persone, a partire dall’ascesa di Al-Sisi nel 2013. I detenuti per motivi politici sono in gran parte attivisti, giornalisti, avvocati, accademici e islamisti, arrestati nei continui “rastrellamenti contro il dissenso” del regime. A Tora viene silenziato il passato e ucciso il futuro dell’Egitto.
In questo momento, poi, alle condizioni già pietose delle carceri si aggiunge il Coronavirus: i detenuti rischiano di ammalarsi a causa del proliferare di batteri nell’ambiente malsano e sovraffollato in cui sono costretti a vivere, e Shady Habash potrebbe, per quel che ne sappiamo, anche esserne una vittima.

Dallo scoppio della pandemia, il governo egiziano ha vietato a chi si trova in carcere tutti i contatti con l’esterno, inclusi parenti e avvocati. Molte associazioni in difesa dei diritti umani, come Amnesty International, hanno già lanciato un appello alle autorità perché rilascino tutti coloro che sono detenuti per motivi arbitrari e i soggetti più a rischio imputati per casi minori.
La stessa Amnesty qualche mese fa, dopo l’arresto di Zaky, ci ricordava come fosse fondamentale il nostro contributo di fronte a queste aperte sfide alla giustizia e all’umanità stessa: parlarne, far riaffiorare queste storie dal rumore di tutti i giorni. La nostra forza risiede nella capacità di creare impatto sociale, alzando la voce affinché si sollevi un coro di indignazione che rifiuti categoricamente questi abusi di potere e metta pressione a chi è in carica.

“La prigione non uccide, ma lo fa la solitudine. Ho bisogno del vostro supporto per non morire”, scriveva Shady nell’ultima lettera agli affetti. Noi non possiamo far altro che raccogliere il suo appello, rispettando la sua memoria e non lasciando mai spegnere il fuoco della giustizia e dell’amore per la verità. La stessa fiamma per cui troppe persone, in tutte le epoche e di tutte le età, hanno dato la vita.

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