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La mediocultura giovanile anni ’90 e il “caso” Pezzali: Rotta per casa di Dio

La rubrica su lingua, poesia e canzone si apre con una scelta che può apparire insolita o addirittura stravagante, presentando spunti di riflessione linguistica su un brano di Max Pezzali.

A partire dagli esordi legati all’esperienza degli 883 (il primo album, Hanno ucciso l’uomo ragno, esce nel 1992), Max si presenta da subito come un’icona pop, un prodotto adatto a far colpo su un determinato tipo di pubblico, quello pseudo-adolescenziale. I suoi brani raccontano di Pavia e dintorni ma, in accordo con il grande Edmondo Berselli (importante scrittore, giornalista e saggista modenese), potrebbero riferirsi a qualunque altra città italiana, dove, per sfuggire alla noia, si naviga sulla superficie urbana, si va in giro per le strade, facendo tappa in luoghi fissi come il bar («stessa storia, stesso posto, stesso bar», Gli anni) o discoteche e discopub (anche se a Pavia non è che questi abbondassero… «Due discoteche, centosei farmacie», Con un deca). Max riesce, sotto la spinta dell’intuizione puramente commerciale di Claudio Cecchetto (produttore e “inventore”, tra l’altro, del primo Jovanotti), a rivolgersi agli adolescenti, regalandone nello stesso tempo un grande spaccato sociale; si tratta di quei giovani figli della nuova grande classe media italiana, una generazione mediamente colta (o meglio dire incolta) né di borghesi né di ricchi, che vive immersa in una cultura pienamente di massa, e che si rispecchia fedelmente anche nella sua lingua.

La scelta linguistica di Pezzali non sta nella ripresa di stilemi poetici desueti o ricchi di echi novecenteschi, né si arricchisce con quell’invenzione linguistica che possiano trovare in alcuni brani rap del periodo: la scelta è di mimesi quasi naturalistica di un linguaggio privo di regionalismi, ma che risente della cultura centro-padana in cui è nato e si è sviluppato, negli anni in cui i mass-media hanno ormai portato a termine l’unificazione linguistica avviatasi con la diffusione della Tv negli anni ’50. I parlanti di questo linguaggio riprodotto fedelmente e realisticamente sono proprio loro, i più giovani.

Il linguaggio giovanile era entrato in canzone lentamente a partire dagli anni ’70, grazie ai cantautori, che ne facevano uso centellinato, con intento marcatamente polemico, si pensi per esempio al turpiloquio che, alla fine degli anni ’60 e per tutti gli anni ’70, ha una pregnanza semantica molto connotata in senso di protesta (il manifesto di questa tendenza è L’avvelenata di Guccini). Il gergo giovanile si ritaglia poi un proprio spazio in canzone, e lo fa con il movimento del rock demenziale, anticipatore di quella contaminazione linguistica che, dagli Skiantos, arriva fino al successo di Elio e le storie tese. Negli anni ’90 sembra esserci una svolta e tutto quello che, fino agli anni ’80, è definito prima controcorrente e poi demenziale, diventa normale, ed entra con forza nella canzone di grande diffusione, perdendo gran parte della sua valenza semantica. È la conferma di quanto il linguista Maurizio Dardano decreta sul turpiloquio, arrivando a metterne in discussione l’esistenza in quanto categoria: le parolacce con gli anni ‘90 entrano nell’italiano standard, e lo fanno a partire proprio dal linguaggio giovanile.

Nel caso di Pezzali, solo in Rotta per casa di Dio (dal secondo album degli 883, Nord Sud Ovest, 1993) troviamo cazzate, vaffanculo, teste di cazzo, stronzi, caga, troie. Queste parolacce appaiono come naturali nel tessuto del brano, perdendo quindi quella veemenza semantica che avevano nei testi dei decenni precedenti; si trovano inoltre in un testo infarcito di espressioni gergali, colloquialismi spinti e frasi idiomatiche giovanili, come tranqui, un pacco di tempo, le tipe, ci faremo menate, ci siam fottuti la festa, è una botta sicura. Non si tratta di un’operazione culturale, ma di una registrazione linguistica realizzata dal giovane autore che scrive i suoi testi nella lingua che usa (o usava ai tempi) con gli amici.

La canzone è ricca di altri fenomeni linguistici tipici delle canzonette, come il trucchetto delle diastoli che trasformano in tronche le parole piane a fine verso (nel nostro brano abbiamo per esempio «basta uscire più di dieci chilometrì»), ma ciò che balza all’orecchio è che il brano parla esattamente come i giovani che lo ascoltano, ossia quella generazione a metà, figlia dei tormenti ideologici delle precedenti, e non ancora coinvolta nella rivoluzione social delle successive. Il linguaggio pop di Pezzali si diffonde così “a macchia d’olio” negli anni ’90 e colma quella che il critico letterario e attento linguista Pier Vincenzo Mengaldo ha chiamato attesa di poesia, che i giovani degli anni ’80 e ’90 riversano nelle canzoni leggere, come ben attestato anche da Pier Vittorio Tondelli nel suo celebre Il weekend post-moderno.

Il linguaggio giovanile stilizzato entra così con Pezzali nelle canzoni di larga diffusione, avviando una tendenza che arriva fino a oggi (chissà che magari, tra vent’anni, si potrà dedurre dalle canzonette contemporanee di Fedez & co. il gergo giovanile dei primi Duemila). Una cosa è certa: questa tendenza “gergalizzante”, che infarcisce gran parte del pop contemporaneo, resta in netta contrapposizione a un altro italiano del pop, che possiamo definire ripulito e puro, cristallizzatosi come una lingua fuori dal tempo e che, come ha dimostrato il successo di Fiorella Mannoia allo scorso Festival di Sanremo, è ancora ben radicato nella canzone contemporanea. Si tratta di un italiano standard, o della standardizzazione di un italiano che ormai non è più standard da tempo? Ai posteri l’ardua sentenza!

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