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Ground control to… someone new

Quando un’icona si spegne, infiamma la sua leggenda. Il mito nasce sotto una luce completamente nuova, adornata da quell’aura di intoccabile e sacro che animerà per sempre il suo ricordo.

Quando seppi della morte di David Bowie, il 10 gennaio scorso, ho avuto l’impressione che qualcosa nel mondo della musica sarebbe completamente cambiato da quel momento, come se il colpo inflitto fosse troppo potente da sopportare, ma comunque inevitabile.

Una domanda è sorta nella mia testa da ascoltatrice troppo giovane per apprezzare a pieno il vissuto musicale di una colonna portante come il Duca Bianco, ma comunque assidua ammiratrice ed amante immaginaria devota: «E poi?». Una domanda lecita e comune per chi ne ha seguito la carriera, la quale ha toccato qualunque ambito professionale, sia musicale, che cinematografico ed artistico.

L’eredità di questo grande personaggio è un peso che attualmente nessuno sarebbe disposto a sostenere e portare avanti senza ricevere una dose titanica di critiche. È dunque corretto lasciarla alla memoria collettiva come sinonimo di irraggiungibilità artistica?

È oltremodo vero che ad inseguire orme così importanti spesso si rischi di risultare al pari di Icaro e di fare la sua stessa fine, tuttavia mi chiedo se sia davvero giunta l’ora di chiudere i battenti, aprire in terre più adatte a fini commerciali e sperare in un avvenire roseo. L’icona pop come la si intende per Bowie ed altri grandi della musica appartiene ad un passato ormai lontano dalle coscienze dei giovani, il termine stesso ha assunto accezione differente, si è arricchito di nuovi contenuti e si plasma su altre basi, la musica stessa si scrive e si produce diversamente, il talento lo si cerca nei programmi televisivi dedicati, è tutto nuovo, social, interattivo. Non è un segreto che la quantità sia favorita rispetto alla qualità e che un buon pezzo si valuti esclusivamente sulla base delle copie vendute di questi tempi.

Eppure Bowie, con il suo ultimo album, Black Star, è riuscito ad adattarsi pur rimanendo fedele a lui stesso, mimetizzandosi e ricostruendosi molto più facilmente di quanto avrebbe fatto chiunque. D’altronde, questo gioco non è mai stato un reale problema per lui che, anzi, ne era il principale fautore. È un’opera completa, non esente da critiche, accuse di plagio e speculazioni su satanismo ed esoterismo vario ed eventuale (come ormai nella tradizione di ogni album dell’artista), ma un canto del cigno memorabile, degno di essere annoverato come l’ultimo regalo di una divinità ai suoi fedeli prima di ripartire per il Pantheon (che sia su Marte?).

Il vuoto creatosi dopo la sua dipartita è incolmabile, David Bowie era un pilastro portante nel tempio della Musica, il quale ora risulta pericolante, ma non è detto che stia per crollare, ci vorrebbe solamente un po’ di coraggio nel rimetterlo in sesto, portando nuovo splendore ad un monumento sacro per l’umanità intera.

Il mondo ha bisogno di un nuovo “Major Tom“, qualcuno che sappia come affrontare una sfida vera, per andare oltre la Luna, vedere il pianeta Terra di colore blu e, come il suo predecessore, non poterci fare nulla.

«Can you hear me, Major Tom

 

 

 

 

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