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La Democrazia è in crisi, perché non siamo elettori ma spettatori?

La perdita di credibilità dei partiti tradizionali, dopo numerosi episodi di corruzione politico-amministrativa e il crescente malcontento popolare dovuto a crisi economica e mancanza del lavoro, sono fattori disgreganti per le nostre comunità. E minano i principi di razionalità e di rappresentanza politica della volontà popolare su cui le democrazie sono state fondate. Spianando la strada a partiti populisti che rifiutano qualsiasi tipo di mediazione e utilizzano il web come mezzo di realizzazione di una democrazia diretta basata sulla “popolocrazia” o “sovranità popolare”.  Ma l’attuale narrazione politica tende a polarizzare l’elettorato verso temi e proposte di legge sensazionalistiche, “formato slogan” e di difficile realizzazione.  Così finiscono nel mirino delle critiche tutti coloro che si oppongono muovendo obbiezioni . E si avvia, dunque, un processo di omologazione dei consenzienti e denigrazione dei dissenzienti. Gli elettori visti come massa indistinta sono veicolati sui temi e le proposte da approvare o meno. Vengono sminuiti a spettatori. Occupati in un continuo giudicare pretendono l’immediatezza, ma non hanno la possibilità di autodeterminarsi, come la vera democrazia diretta auspicherebbe.

 

La democrazia è il risultato di un processo lungo secoli

C’era una volta un principio che ardeva negli animi dei padri costituenti delle moderne comunità che oggi conosciamo. Si tratta del One man-one vote, ovvero il fondamento della regola di maggioranza. Principio cardine della visione classica della democrazia, secondo il quale tutti gli uomini sono nati eguali. Benché ci capiti di abusare del termine “democratico”, riferendolo ai processi e ai tratti più vari delle nostre società, una democrazia è un sistema di governo in cui a tutti i cittadini è concesso di votare per determinare le decisioni della comunità.  La moderna democrazia trova i suoi fondamenti nella rivoluzione inglese, in quella americana e francese, e il suo reale sviluppo con il costituzionalismo liberal-democratico ottocentesco, fino alla conquista del suffragio universale in quasi tutto il mondo durante gli anni novanta.

Le vittorie del 900

La seconda metà del secolo scorso ha celebrato un’impressionante serie di successi da parte della democrazia: tra le tantissime cose, ha sconfitto il peggior regime dittatoriale di sempre, la Germania Nazista; si è insediata in India, lo stato più popoloso del mondo; ha battuto ed eliminato il sistema discriminatorio più simbolico, l’Apartheid sudafricano. Con la fine del colonialismo, la democrazia ha raggiunto molti paesi in Africa e Asia; ha rimpiazzato dittature in Italia, Spagna, Grecia e diversi paesi sudamericani, creato in Europa occidentale una pace stabile e duratura mai vista prima. E infine, con la caduta dell’Unione Sovietica, ha sostituito i regimi comunisti in quasi tutta l’Europa dell’Est. Nel 2000 il Think tank Freedom House classificò come democrazie 120 paesi, il 63 per cento del totale mondiale. Questa grande espansione del processo democratico durante il Novecento ha portato a un’evoluzione sostanziale della democrazia stessa: da sistema di regole e procedure a tutela dei diritti politici, si è progressivamente convertita in garanzia anche di diritti civili e sociali. Ma alla base della democrazia oltre al principio di uguaglianza dei diritti, almeno tacitamente c’è un altrettanto importante fondamento, “la razionalità dell’uomo comune”: solo rispettando questo credo si può sostenere che la “lex majoris partis” (la legge della maggioranza) sia anche la “lex melioris partis”, la legge migliore.

Se fino a oggi la democrazia è stata un’aspirazione di milioni di persone e molti popoli che non ne godono, è perché i dati e la storia dicono che le democrazie sono in media più ricche, sono meno impegnate in guerre e sono più in grado di combattere la corruzione, e offrono ai loro cittadini libertà e opportunità per se stessi e per i propri figli.”

Questa visione della democrazia ha incontrato crescenti smentite nel corso del XX secolo

La democrazia come tutte le cose che conosciamo non è immutabile, si trasforma in base ai momenti e le sollecitazioni sociali che muovono la Storia. Credere nella razionalità umana non è sempre stato possibile. Lo era nel clima della Felix Europa del positivismo scientifico e nella fiducia delle “magnifiche e progressive sorti”, una fiducia che è stata messa in discussione dopo due guerre mondiali, un olocausto e i regimi totalitari del ‘900. Così è sorta la consapevolezza che il comportamento politico non è sempre razionale, e i regimi democratici possono entrare in crisi e decadere. Alla fiducia incontrastata nella razionalità dei cittadini si sostituisce la teoria “elitista” della democrazia. Anticipata prima da Schumpeter e poi autorevolmente sostenuta da Sartori e Dahl, afferma che: Nei regimi democratici il ruolo della maggioranza, del «popolo», non è quello di partecipare direttamente al governo delle istituzioni ma quello di scegliere a chi affidarlo tra le minoranze elitarie in competizione per il potere.” In questa visione della democrazia viene riconosciuta all’élite maggiore competenza, perché non solo avrà la responsabilità di scegliere la classe politica ma svolgerà anche un ruolo di controllo sul suo operato.  Questa visione comporta l’esistenza di un sistema pluralistico e pluripartitico, di un’informazione non viziata da conflitti di interesse, e una classe politica percepita come legittima e capace dalla maggioranza dei cittadini.

L’elevata corruzione politico-amministrativa che ha caratterizzato numerosi sistemi democratici, il progressivo trasferimento delle decisioni politiche a livello sovranazionale, la crisi economica che ha colpito le nostre democrazie aumentando le disuguaglianze interne ai singoli stati, e in aggiunta la mancanza di partiti di opposizione considerati come reali alternative alle forze del governo, hanno causato la perdita di credibilità delle classi politiche tradizionali agli occhi dei cittadini spianando il terreno a numerosi movimenti e partiti anti-élite e anti-establishment, meglio noti come populisti. Partiti e movimenti che hanno trovato nelle falle della democrazia rappresentativa la loro ragione di esistere. Si ritraggono come difensori del popolo, visto come massa indistinta e rivendicano il principio della “sovranità popolare” attuabile attraverso la democrazia diretta, principio di cui il popolo è stato delegittimato, delegandolo a rappresentanti incompetenti. Questa è l’attuale narrazione politica dove la nuova leadership mossa da un irrazionalismo giudicante rifiuta ogni forma di mediazione, sia ad opera di partiti, che di giornalisti, tecnici o esperti, perché non “eletti da nessuno”.  Al tradizionale rapporto che legava la dirigenza di partito ai propri iscritti ed elettori attraverso una capillare organizzazione si è solo sostituito un rapporto attraverso i nuovi media digitali, aperto peraltro a possibili incontrollate manipolazioni. Senza dimenticare che al pari dei vecchi partiti sono anch’essi guidati da un ristretto gruppo dirigente. E l’Italia ne è un buon esempio. Le due forze politiche M5s-Lega al governo, tra le tante differenze, hanno dei tratti comuni che hanno facilitato un matrimonio esecutivo e sono causa e conseguenza di quel cambiamento che sta diventando la cifra della politica contemporanea.

Un ruolo fondamentale in questo senso è svolto dal web e dalle possibilità sempre crescenti di interconnessione che riesce a garantire. 

Il profilo Facebook di Matteo Salvini, con i suoi 3,2 milioni di seguaci, è il più seguito tra i politici europei, e il Movimento 5stelle ha raggiunto la popolarità proprio grazie al web, facendo della Piattaforma Rousseau, luogo di dialogo con l’elettorato e reclutamento politico. Ma se ciò può apparire come una possibilità di democratizzazione, al tempo stesso porta con sé vizi e rischi legati alla natura del medium.

Democrazia in diretta

Nadia Urbinati, docente di Teoria Politica alla Columbia University, nel suo La democrazia in diretta descrive così la narrativa di Internet: “Una cascata di attimi, di opinioni o di sollecitazioni che agiscono nel presente e non conservano memoria”. Per la propaganda pentaleghista ogni fatto di cronaca favorevole è un buon motivo per fare proselitismo e le promesse-sparate al momento si trasformano raramente in realtà. Si pensi alla miriade di proposte in formato slogan, adattate a post per i social – di difficile attuazione, ma di grande appiglio per l’elettorato sensazionalista, – che popola il web, uscite dalla bocca di Di Maio e Salvini. Basta pensare all’abolizione della povertà dopo l’approvazione del deficit in Consiglio dei ministri, all’individuazione nel gruppo Benetton dei responsabili del crollo del ponte Morandi, all’ipotesi di censimento dei rom, alla chiusura anticipata dei negozi etnici, o alla passeggiata del leader leghista a san Lorenzo dopo la morte di Desirée Mariottini.

Popolocrazia

Altro pilastro di questa democrazia è l’appello al popolo, o “popolocrazia” come la definisce Marc Lazar, docente dell’istituto Sciences Po di Parigi. Se pure, come ci ricorda Hans Kelesen, grande giurista del Novecento, il popolo non è “un collettivo unitario omogeneo”. Ma questa entità diventa l’unica fonte di legittimazione pubblica, a punto tale da permettere a Salvini d’inveire contro chiunque lo contraddica perché non eletto. Questa pericolosa tendenza unita dal rapporto diretto con l’elettorato consentita dai new media sfocia nella personalizzazione del potere e nell’onnipotenza della maggioranza, deformando la democrazia rappresentativa in senso plebiscitario. O con noi o contro di noi sono le uniche scelte offerte ai cittadini.

Diventa prioritario all’interno di questa narrazione la presenza di un nemico, verso cui veicolare il malcontento generale dovuto alla crisi economica e alla disoccupazione. È la presenza del nemico a indicarci l’amico, e attorno al confine tra amico e nemico fiorisce l’identità. Questo processo polarizzante viene facilitato dal web, un medium che tende a creare gruppi algoritmicamente chiusi, a causa della possibilità di filtrare i contenuti in modo personalizzato, in base a ciò che ci fa piacere leggere e seguire escludendo il resto. È la logica delle filter bubbles, bolle create su misura, a seconda degli interessi, delle pagine che consultiamo e dei click e like che disseminiamo per la Rete, analizzate bene da Eli Pariser. Quest’uso della tecnologia assieme all’onnipotenza della maggioranza e la fiducia empatica verso il leader dà vita a un doppio processo: l’omologazione dei consenzienti e la denigrazione dei dissenzienti.

Così Salvini può annunciare vendetta contro Tito Boeri, direttore del INPS; Di Maio definisce opposizioni e giornali come nemici d’Italia; Di Battista descrive i giornalisti come “infimi sciacalli” e “puttane”, e gli esempi potrebbero continuare all’infinito contando i numerosi attacchi verso l’UE. Di fronte all’evolversi dei fatti il popolo non prende decisione come l’idea della popolocrazia rivendicherebbe, ma diventa spettatore passivo, con un’unica pretesa l’immediatezza. “L’organo del potere popolare,” scrive Urbinati, diventa l’osservazione piuttosto che la decisione, l’occhio pubblico che vuole vedere e non la voce che rivendica il fare”, gli elettori-spettatori diventano un esercito di haters che popolano i social, pronti a giudicare negativamente chi critica i loro rappresentanti. Il pericolo è che l’immediatezza e l’emotività sostituiscano i tempi della ponderatezza e della razionalità politica che i nostri padri costituenti hanno ben tradotto nei 139 articoli della Costituzione. Questa è la democrazia immediata e in diretta, dove il popolo opera come massa indistinta che, in qualità di supremo spettatore, guarda soltanto e reagisce quando ne vengono sollecitate pulsioni irrazionali. In continuo giudicare senza possibilità di autodeterminarsi. Come la democrazia diretta, ma quella vera, consentirebbe.

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