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Intervista a Ugo Alciati: uno chef a regola d’Arte

Ha iniziato la sua attività giovanissimo, un po’ per gioco, nel locale di famiglia Guido Ristorante, che apre i battenti a Costigliole d’Asti per la prima volta nel 1960: così Ugo Alciati, classe 1967, comincia il suo percorso, fino ad essere oggi uno dei cuochi più rinomati in Italia e nel mondo. Nel 2003 si trasferisce a Pollenzo, dopodiché nel 2013 si ha l’importantissimo trasferimento a Villa Reale nella Tenuta Fontana fredda di Serralunga d’Alba (CN), dove sorge oggi il suo ristorante stellato. Da qualche anno collabora con il gruppo Eataly e da poco ha ricevuto il titolo di Ambassador del Tartufo.

I suoi genitori hanno aperto il ristorante nel 1960. Lei invece quando ha sentito la vocazione per la cucina?
Era più o meno il 1982-1983; ero giovane, avevo tredici o quattordici anni. In realtà in cucina ci stavo da quando ne avevo nove o dieci, ma ci giocavo ed era più un divertimento, quindi a un certo punto, finita la terza media, ho capito che quella era la strada che mi sarebbe piaciuto prendere e sono andato avanti in quella direzione.

Il fatto di essere in qualche modo “figlio d’arte”, quanto ha inciso nelle sue decisioni?
Diciamo che per alcuni versi questo può essere una cosa positiva. Da un certo punto di vista può facilitare il discorso perché hai già una cucina, hai già un ristorante e quindi può essere facilitata la prova e l’idea di voler fare questo mestiere. Dall’altra parte perdi l’effetto sorpresa: se si fa una media nazionale dei ragazzi che iniziano la scuola alberghiera e quelli che poi continuano con un lavoro in cucina la media è bassissima, sta sotto al 10%. Questo perché l’effetto sorpresa è alle volte devastante: uno magari non si aspetta che cosa sia questo tipo di vita. Io di sorprese ne ho avute poche… Diciamo che sapevo già di che cosa si trattava e sapevo già che quella sarebbe stata la mia vita. La parte facilitata è stata quindi l’eliminazione di questo effetto sorpresa; per il resto lavorare con tua mamma e tua nonna in cucina non è una cosa semplicissima: c’era questo ostacolo molto forte, “non toccare quello che ti fai male” e “no, non toccarlo perché non sei capace a farlo”. Erano più i “no” che mi sentivo dire, ma erano altri tempi e quindi c’erano delle complicazioni in più sotto quel profilo lì.

Lei lavora in un ristorante stellato e da pochi giorni ha ricevuto il titolo di Ambassador del Tartufo. Che importanza hanno per lei questi riconoscimenti?
«Sono sicuramente importanti; quello sul tartufo è sicuramente molto importante perché è il focustrainante, come il vino, di tutte queste zone delle Langhe, del Roero e del Monferrato, zone che hanno saputo valorizzare nel modo migliore sicuramente questi due brand, vino e tartufo».

Il suo ristorante mescola sapientemente tradizione e innovazione. Dunque, qual è la sua idea di cucina? E come si rapporta con le nuove tecnologie che stanno sempre più prendendo piede nel mondo culinario?
Allora, sicuramente la tecnologia aiuta, ne sono assolutamente convinto e io la utilizzo ove sia utile, ma tuttavia non sono mai per gli eccessi, in nessun caso. Non esco mai dai limiti; andare oltre il limite è una cosa che mi dà fastidio, non mi piace. In tutte le cose pondero molto bene quali sono i miei limiti e ci arrivo vicino, ma decido di non oltrepassarli mai. Oltrepassando i limiti si perdono la visione e la gestione globale di quello che si fa, e quindi quando non sai più quello che fai diventa un problema… E in cucina è un problema enorme. Bisogna fare attenzione: noi diamo da mangiare alla gente e la gente si nutre con quello che noi prepariamo, quindi dobbiamo avere una coscienza assolutamente pulita su questo fronte. Utilizzare alle volte ingredienti poco commestibili semplicemente per fare scena e fare fumo non è nel mio stile. Noi abbiamo una cucina molto concreta, legata al territorio, ai produttori e agli allevatori della nostra zona; siamo molto legati alle persone che producono e allevano i nostri prodotti perché sono fondamentali per il nostro lavoro.

Un piatto è in qualche modo una creazione artistica che prevede passione ed esperienza. Quando si crea un piatto, quindi, si può dire che con esso si crei una sorta di legame intimo: c’è qualche piatto in particolare che sente più suo?
Cronologicamente parlando ed affettivamente parlando sicuramente un piatto che non è un piatto vero e proprio, perché è un pezzo della pasticceria ed è l’unico che io ho al ristorante, le mie meringhe. Innanzitutto perché è il primo esperimento che ho fatto in cucina quando avevo nove anni, ed era appunto un esperimento perché mi ci sono voluti due anni per sistemare una ricetta che io erroneamente pensavo molto semplice perché ha solo due ingredienti, mentre in realtà è una delle cose più difficili in assoluto da fare bene. Poi ho raggiunto il mio obiettivo e le meringhe non sono mai uscite dalla carta del ristorante, così come gli agnolotti del plin e il vitello tonnato. Ci sono tre, quattro o cinque piatti che ovviamente non sono stagionali, ma sono presenti tutto l’anno. Questo perché noi seguiamo molto quelle che sono le stagioni, anche se sta diventando sempre più complicato perché le stagioni si stanno mescolando un pochino troppo e facciamo un po’ di fatica anche noi a gestire questa cosa. Le stagioni per noi sono da quando inizia un prodotto a quando questo prodotto finisce: per noi la cucina è stagionale singolarmente per ogni prodotto che utilizziamo, seguiamo il calendario della maturazione dei vari prodotti e delle varie cose.

Parlando invece di rapporto con la materia prima, quanto è importante la qualità di un prodotto nel complesso della preparazione di un piatto?
Cento. Cento nel senso che senza una materia prima di altissima qualità non si fanno mai grandi piatti. Non esiste un cuoco al mondo capace di far diventare buona una cosa cattiva; se si parte con il piede sbagliato, con un pessimo ingrediente si potrà ottenere magari un piatto esteticamente bello ma sempre pessimo. Per quel che mi riguarda il piatto non è un quadro da appendere a un muro, è una cosa che noi mangiamo. Le proporzioni oggi sono andate un po’ fuori da quella che è la logica del ristorante: si tenta di far passare i cuochi da fenomeni artistici, ma in realtà noi facciamo da mangiare, e se facciamo da mangiare dobbiamo preoccuparci anche che questo cibo sia all’altezza di quello che è l’aspetto estetico, non possiamo curare per il 90% l’aspetto e lasciar perdere tutto il resto, è sbagliato. Se vuoi pensare solo a una questione estetica prendi delle tele, ti metti a dipingere e le appendi ai muri, non apri un ristorante dove della gente viene a degustare o mangiare i tuoi prodotti e le tue creazioni.

Spesso la qualità viene associata a un prezzo più o meno elevato della materia prima. Un suo parere?
Produrre bene costa più caro che produrre male, questo è fuor di dubbio. Ti faccio un esempio molto realistico e molto facile da comprendere, anche se si tratta di un prodotto di nicchia che si produce nel raggio di venti chilometri, e al di fuori di quello è un prodotto non dico sconosciuto perché noi cerchiamo di farlo conoscere al resto del mondo, ma non viene esportato al di fuori dal Piemonte anche perché è un prodotto delicato che non sopporta lunghi viaggi, il cardo gobbo di Nizza Monferrato. Ci sono due metodi per farlo: quello del presidio di Slow Food e quello dei coltivatori coscienziosi che seguono la tradizione, quindi fanno crescere il cardo fino a una certa altezza, poi viene legato e fasciato a mano; al fianco dei filari viene scavato un solco e poi il cardo viene delicatamente ripiegato e ricoperto di terra lasciando fuori solo le foglie. Questo serve per bloccare la fotosintesi clorofilliana, farli da verdi diventare bianchi e da amari farli diventare molto dolci. E questo è un lavoraccio. Poi dal momento che tu devi cogliere i cardi loro sono sotto terra, e magari anche sotto la neve, perché è un prodotto che c’è da adesso (ndr: novembre) fino a gennaio più o meno; poi possono essere complicazioni, come la terra che si è ghiacciata e ci può essere fango. È quindi una situazione difficile da gestire e il cardo è completamente coperto di terra, quindi quando tu lo tiri fuori il 50-60% della pianta rimane dentro la terra e sfili via solo il cuore. Ha uno spreco produttivo molto elevato: è materia organica che concima la terra per l’anno dopo, ma lo spreco del prodotto comunque rimane. È come avere una pianta di dodici chili e poterne usare solo tre: solo questo comporta un costo elevato. Poi c’è da aggiungere tutto quello che comporta la fatica e il sistema: tempi, modi, meteo.

Poi c’é un modo più veloce, in cui i cardi sono coperti con una plastica nera tipo la plastica utilizzata con le fragole quando non si vogliono far crescere le erbacce. Coprendolo non entrano i raggi del sole e quindi lui diventa comunque bianco, ma rimane filoso e amaro: costa un terzo ma non è buono.

Questo è il concetto finale: le cose buone costano di più vuoi perché la produzione è limitata, anche per il diradamento della produzione stessa, vuoi per il lavoro di preparazione. Se io coltivo mele o pere, non poto e non dirado nel modo giusto, faccio crescere cinque quintali di mele anziché uno a pianta, questa ha una distribuzione dei suoi nutrimenti per quattro volte tanto rispetto a quello che potrebbe sopportare, poi devo concimare, devo dare acqua per dare nutrimento a tutti i frutti, ma alla fine le mele sanno di acqua gasata. Il prodotto concentrato ha un costo superiore perché la produzione è decisamente più bassa rispetto a una produzione di massa e industriale.

Da qualche anno collabora con il gruppo Eataly, anche per progetti specifici come la gelateria Lait. In un prodotto come il gelato, di cui spesso ci si interessa poco della produzione artigianale o industriale, in che modo può incidere la selezione di una materia prima di qualità?
La qualità della materia prima è fondamentale. Noi utilizziamo il latte dei pascoli alpini dell’Alta Valle di Stura, cerchiamo di aiutare questi piccoli allevatori ad ottenere un prezzo di acquisto dei loro prodotti un pochino più giusto ed equo, perché venti centesimi al litro per un animale che produce dieci/dodici litri di latte al giorno è poco, per loro così è un costo veramente eccessivo mantenere le mandrie di mucche con questi prezzi. Noi stiamo cercando di ottimizzare questo loro lavoro che è importantissimo, perché altrimenti si andrebbe a perdere un prodotto di eccellenza. E se teniamo conto che la base del gelato è circa il 75% di latte si capisce che se uso un latte che non sa di nulla perché è stato prelavorato, sgrassato o impoverito in qualche maniera, e in più arriva da mucche che vengono pompate regolarmente per avere cinquanta/cinquantacinque litri di latte al giorno, capisci che è come per la pianta delle mele: se produci dieci litri il latte avrà un sapore, se ne produci cinquanta sarà annacquato, più povero. Quindi il tuo gelato sarà meno buono.

La regola di base è sempre quella, se non si usa una materia prima di qualità si avrà un prodotto meno buono, poi con un po’ di aromi, un po’ di lavorazioni magari con macchinari fantascientifici si riesce ad ottenere un prodotto commerciabile, perché nessuno fa gelato industriale cattivo. Ma il gelato buono è diverso. In un banco del supermercato su una scatola qualunque vedi che mediamente gli ingredienti in etichetta sono tra i venti e i ventisette. Noi invece ne usiamo sei per fare il gelato.

Questo potrebbe compromettere il sapore?
L’industria usa i trucchi magici, quindi non fa parte dei cuochi che ti dicevo prima, che non possono far diventare buono un prodotto cattivo. In alcuni casi, grandi multinazionali riescono a far diventare buono – non eccezionale, ma buono – un prodotto che non lo sarebbe attraverso correttori di gusto, prodotti chimici di vario genere e tipo, aromi di qualunque estrazione, dagli esteri del petrolio a qualsiasi altra cosa. In questo modo il prodotto risulta gradevole al palato, ma se fosse assaggiato al naturale sarebbe immondizia.

Di recente si parla sempre più spesso di sprechi alimentari, di allevamenti intensivi, di sovrapproduzione. In quest’ottica, da chef e da ristoratore, crede sia necessaria una “rieducazione” alimentare per i consumatori?
Sicuro. Questo è fuor di dubbio e credo che uno dei Paesi con l’educazione alimentare meno sviluppata, ed è molto curioso, è proprio l’Italia. Questo perché soprattutto nelle ultime due generazioni non c’è cultura alimentare, non c’è forse più la nonna che cucina la torta di mele per colazione e si è persa una serie di caratteristiche e di qualità che le famiglie italiane avevano cinquantanni fa. Quindi, secondo me, siamo già un po’ in ritardo, ma sarebbe ora di iniziare una ripresa dell’educazione alimentare dalle scuole, che sono un po’ il punto focale. Innanzitutto, perché i bambini riescono a convincere i genitori a fare cose che nessun altro riuscirebbe, e quindi potrebbero essere un po’ il veicolo per svegliare i quarantenni addormentati, poi sicuramente aiuterebbe ad educare loro stessi e farebbe crescere loro in maniera un po’ più sana».

 

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