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Intervista integrale ad Alessandro Dell’Orto

Come promesso, eccovi l’intervista integrale ad Alessandro Dell’Orto, pubblicata in versione ridotta sul numero 107.
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La prima volta che l’ho incontrato, in occasione di una lezione del corso di “Etica e Deontologia della Comunicazione” a cui era stato inviato a partecipare, Alessandro Dell’Orto mi ha colpito molto per il modo in cui parlava in maniera tanto appassionata del suo lavoro agli studenti. È stato in quella circostanza che mi è venuta in mente l’idea di cercare di rincontrarlo, in modo da poterlo conoscere più da vicino e da trasformarlo per un giorno da intervistatore a intervistato. Dell’Orto si è dimostrato sin da subito una persona con cui è possibile chiacchierare tranquillamente, come se ci si conoscesse da tanto tempo e così ci siamo incontrati in un bar del centro di Milano, nei pressi della redazione di Libero. Mi ha chiesto innanzi tutto di presentargli  Inchiostro, poiché era curioso di conoscere il nostro giornale: com’è organizzata la redazione, come lavoriamo, come stampiamo e distribuiamo le copie. Poi  abbiamo chiacchierato un po’ di tutto: dei rispettivi percorsi universitari, di giornalismo, di lavoro redazionale e di calcio. Tanto calcio.

Inchiostro – Leggendo il tuo curriculum vitae apprendiamo che lo sport, e in particolare il calcio, è il settore di cui ti sei maggiormente occupato nel corso della tua carriera. Partiamo da qui. Com’è cambiato, rispetto al passato, il modo di fare cronaca sportiva? Il calcio è ormai evoluto in una pura spettacolarizzazione televisiva, perdendo l’originaria vocazione di disciplina agonistica?
Dell’Orto – Innanzitutto, rispetto al passato, è cambiato il modo tecnico e tattico di giocare: è un gioco più veloce, con meno spazi ed esasperato in tutto. Parallelamente è cambiato anche l’ambiente che c’è al di fuori del campo di gioco: soprattutto per quanto riguarda l’avvento delle pay tv che ha portato denaro ingolosendo le società a livello economico, facendole diventare schiave del sistema televisivo. La mia generazione, che era abituata a seguire le partite la domenica pomeriggio alla radio su “Tutto il calcio minuto per minuto” e a vedere i gli highlight di “90° minuto”, si ritrova ora in un ambiente stravolto dal cosiddetto “calcio spezzatino”, in cui si gioca il venerdì e il lunedì sera e la domenica a mezzogiorno: tutto questo per il denaro e quindi per le tv che pagano. Questa cosa non mi piace assolutamente, però capisco che tutto cambia e tutto si evolve. Ma questa è secondo me un’evoluzione in negativo che sta avendo il calcio.

Adesso è cambiato moltissimo anche il modo di scrivere e di raccontare il calcio. Ti faccio un esempio pratico. Io quando andavo al campo di allenamento dell’Atalanta avevo libero accesso in tutta la zona antistante agli spogliatoi, andavo a bordo campo a seguire gli allenamenti, parlavo con tutti i dirigenti, aspettavo i giocatori che uscivano dopo la doccia per andare alla macchina e li potevo raggiungere quando volevo, li salutavo quando arrivavano con la macchina. Ormai io non ci vado da un po’ di tempo, ma mi risulta che nello stesso campo di allenamento non puoi più entrare: c’è una “gabbia” apposita per i giornalisti, se vuoi parlare con i giocatori non puoi e la società mette in conferenza stampa uno o due giocatori al giorno che parlano con tutti e non solo con te. Di conseguenza non puoi più personalizzare il lavoro; ai tempi io mi sceglievo chi intervistare, parlavo un po’ con tutti per sapere come stavano e poi portavo a casa il mio lavoro. È cambiato totalmente anche il rapporto: molto più freddo, distaccato e formale

Veniamo ad argomenti attuali: lo sciopero dei calciatori. Si paragonano a comuni lavoratori rivendicando diritti ritenuti sacrosanti. C’è invece chi ribatte che per equipararsi a un comune lavoratore, il calciatore se ne debba andare a lavorare e che con lo stipendio oneroso che guadagna dovrebbe solo pensare a scendere in campo. Cosa ne pensi?
Io credo che il problema dello sciopero sia un po’ più complesso di come lo rappresentano e di come la gente lo pensa. Il calciatore è vero che è strapagato e straviziato, ma non per questo non deve avere dei diritti. Per cui, ad esempio, se sono un calciatore non vedo perché debbano obbligarmi a giocare alle 12 di mattina, magari d’estate con temperature molto elevate.
Questa secondo me è una forma di prevaricazione dei diritti di un lavoratore e quindi non trovo assolutamente né strano né vergognoso che i calciatori puntino su queste cose. Credo che la gente pensi che il sindacato dei calciatori rivendichi solo i diritti legati ai soldi, ma invece non è così.
Trovo, invece, molto interessante la recente divisione dei sindacati. L’Associazione Italiana Calciatori [AIC], che era l’associazione storica, adesso ha un “concorrente”: l’Associazione Nazionale Calciatori [ANC], una nuova associazione fondata da Gigi Buffon, Cristiano Doni e altri calciatori. Io ho avuto modo di parlare con Doni di questa cosa e mi sembra molto interessante, perché loro si staccano sapendo comunque di andare a creare uno scontro. Si separano da un’associazione che è un po’ vecchia e che è gestita da ex calciatori ma che ormai hanno 60-70 anni e che quindi forse non conoscono bene i problemi attuali. Vogliono fare, quindi, una cosa un po’ più legale per dare la dimostrazione che il calciatore non è solo lo stupido che va con la velina ma magari ha anche altri diritti da difendere, che non siano per forza diritti legati allo stipendio, cosa che la gente comune pensa. Sono perciò del parere che sia positivo che un calciatore faccia qualcosa per dimostrare che ha anche un cervello che pensa.

Veniamo al personaggio calcistico più discusso negli ultimi anni: Josè Mourinho. Dopo aver vinto tutto, lo Special One abbandona l’Inter per tentare  un’altra “special experience” al Real Madrid. Riuscirà a confermarsi “special” anche in quest’occasione?
Anche a Madrid Mourinho ha cominciato a far parlare di sé fuori dal campo (mi riferisco al giochino delle espulsioni pilotate nella gara di Champions League contro l’Ajax). Cosa ne pensi?
Mourinho è già speciale, non ha bisogno di confermarsi. Può anche non vincere niente, ma per me è comunque speciale perché è una persona molto furba ed estremamente intelligente. Ha fatto la cosa più facile e più banale che si potesse fare, però l’ha fatta con personalità. Ha allenato il Chelsea che pur essendo ricchissimo non vinceva e l’ha fatto vincere. Quando ha vinto ha salutato e se né andato, così ha scelto l’Italia e si è preso la società più ricca e che non vinceva da tanto tempo, che è l’Inter: si è fatto comprare i giocatori che voleva e ha vinto. Dopo aver vinto tutto, cosa gli importava di aprire un ciclo? Sapeva che ripetersi era solo difficile e poi non era legato né all’Italia né all’Inter. Dunque ha scelto un’altra nazione, la Spagna, e la società più ricca in questo momento, il Real Madrid, che è qualche anno che non vince. Anche qui si è fatto comprare i giocatori giusti e quando vincerà anche col Real Madrid cercherà un nuovo obiettivo, tornerà in Inghilterra o andrà ad allenare la nazionale portoghese, per entrare nella storia come l’allenatore che vince dappertutto. Poi è senz’altro un personaggio discutibile e discusso ma senz’altro anche molto intelligente ed è chiaro che possa risultare simpatico o antipatico in base a ciò che uno pensa; però nel mondo del calcio è sicuramente un ciclone.

Quella delle espulsioni pilotate è una cosa che si fa da sempre, anche in terza o in seconda categoria. È normale: sei in diffida e hai una partita importante tra due domeniche, ti fai ammonire all’ultimo minuto e salti la prossima. Non c’è niente di scandaloso. Ho trovato però di cattivo gusto quando ha fatto il finto scandalizzato per l’espulsione dei giocatori, se lo poteva evitare. Ma questo è il personaggio di Mourinho: eccessivo ed egocentrico in tutto e il suo egocentrismo ogni tanto lo porta a fare queste cose poco eleganti.

Avere a che fare con uno come Mourinho, per come si atteggia e per il linguaggio che usa, immagino che sia la manna dal cielo per ogni intervistatore sportivo. O mi sbaglio?
Mourinho è un personaggio pazzesco, non solo per un intervistatore ma anche per chi segue il campo di allenamento o per chi fa dei commenti. Per il mondo del giornalismo sportivo uno come Mourinho è fondamentale: perché non è mai banale e perché è capace di rigirare gli argomenti. Perciò anche quando perde 5-0 [Barcellona-Real Madrid 5-0, del 29/11/10] riesce ad inventarsi qualcosa che fa più discutere e quindi il giornalista si ritrova due argomenti di cui parlare.
È uno di personalità, che ti sfida, ma è anche un paraculo. Quindi un personaggio così è fondamentale non solo per i giornalisti ma anche per i lettori e i tifosi, che si divertono di più a leggere il giornale.

Marcello Lippi. Sempre discusso nel bene e nel male, è un abile comunicatore che fornisce alla carta stampata tanti argomenti di cui parlare. Ma se sbagli una domanda prende e se ne va. Qual è la tua opinione di giornalista riguardo a questo personaggio?
Come valuti, inoltre, la sua duplice esperienza come c.t. azzurro? Da eroe della patria ai mondiali tedeschi a capro espiatorio del fallimento sudafricano.

Io Lippi l’ho conosciuto e ci ho anche lavorato assieme per un anno, ai tempi dell’Atalanta [stagione 1992/93], e perciò posso dire di conoscerlo abbastanza bene.
Non trovo che sia un abile comunicatore, perché uno a cui fai una domanda fastidiosa prende e se ne va è l’esatto opposto di un abile comunicatore; è uno che non è capace di comunicare perché non accetta la discussione e il confronto. Un ottimo comunicatore è Mourinho perché di fronte a una domanda scomoda è talmente abile che rigira l’argomento e fa fare a te la figuraccia o ti mette in difficoltà.
Lippi è stato un vincente e un grande gestore di gruppi e lo ha dimostrato sia a livello di club, con la Juventus ma anche quando allenava Napoli o Atalanta, sia in Nazionale. È una persona che è sempre stata molto permalosa e dopo aver vinto tanto probabilmente la sua permalosità si è legata un po’ al senso di potere e di appagamento per aver ottenuto certi risultati e quindi nell’ultima esperienza Mondiale è diventato un po’ troppo fissato, troppo rigido e questo l’ha portato a un fallimento annunciato in maniera clamorosa. Infatti, il fallimento azzurro era prevedibile sin da prima che la squadra partisse per il Sudafrica. Lo sapeva anche lui ed è per questo che quando gli facevano le domande prendeva e se ne andava: perché sapeva che non poteva rispondere niente.

Da un c.t. all’altro. In una tua intervista ad Azeglio Vicini, il c.t. dell’Italia al Mondiale 1990, egli ti ha confessato di aver dubitato dell’arbitro della semifinale contro l’Argentina. Accuse pesanti…
Quello degli errori arbitrali è un problema più che attuale. Si discute tanto sulla possibilità di inserire la moviola in campo e la Rai, di contro, la abolisce dalle sue trasmissioni. La tua opinione a riguardo?

Quelle di Vicini sono accuse che sarebbero pesanti se fossero state fatte dopo la partita, ma dopo vent’anni diventano quasi una giustificazione postuma, un dettaglio da aggiungere alla storia. Dopo tutto questo tempo sono dichiarazioni che non possono avere un peso.
C’è una differenza tra  gli allenatori di un tempo e quelli attuali: se una volta erano persone molto eleganti e rispettose, come Azeglio Vicini appunto, adesso tendono spesso a sfruttare e cavalcare le polemiche sugli errori degli arbitri. In passato queste cose si evitavano per non creare degli inconvenienti anche solo a livello di immagine.
Sul fatto della moviola, invece, io sono daccordo. Ho una visione del calcio molto tradizionalista, ma se ci sono gli strumenti per migliorarlo sono favorevole al loro inserimento. Quindi: si alla moviola in campo, anche se bisognerebbe decidere come utilizzarla.
Le scelte della Rai appartengono a una linea editoriale che sarà dovuta sicuramente a tanti aspetti. Io personalmente non condivido questa scelta, anche perché c’è comunque sempre qualcuno che la moviola la fa vedere e in questo modo la fa diventare una sua esclusiva. Poi non sono certo per la moviola in tv fatta per creare polemiche, quella non mi piace. La moviola va fatta da qualcuno che se ne intende e che sappia cogliere certi movimenti naturali dei calciatori; per questo, anche se spesso la fanno commentare agli arbitri, secondo me sarebbe più opportuno farlo fare a un ex calciatore.

A proposito di vicende arbitrali… Su Libero-news.it c’è una rubrica interamente gestita da Luciano Moggi. Come mai la scelta, da parte di Libero, di lasciar spazio ad una figura tanto discussa nel calcio italiano?
Questa è stata effettivamente una decisione molto difficile da accettare per chiunque. È stata una scelta netta che Feltri [a quei tempi ancora direttore editoriale di Libero] ha preso dopo calciopoli. Feltri è sempre uno molto libero, un giustizialista, e quindi tende spesso a dare voce a chiunque nonostante in quel momento sia accusato di qualcosa, senza comunque aver ancora ricevuto un giudizio processuale. In quel momento Moggi fu travolto da tutti. Noi lo difendemmo innanzi tutto perché all’inizio sembrava veramente il più bravo a fare un certo tipo di mestiere.
Questa è stata, lo ribadisco, una scelta molto netta e coraggiosa, in linea con lo stile di Feltri, la quale ha sicuramente fatto perdere a Libero parecchi lettori, soprattutto interisti, ma magari ne ha portati altri.
Adesso Moggi va avanti a scrivere e penso, detto molto sinceramente, che la sua collaborazione sia sfruttata male, nel senso che uno come Moggi dopo quattro anni dovrebbe scrivere meno di calciopoli, della Juventus e di Guido Rossi per raccontare aneddoti sul mondo del calcio di cui ne conosce a migliaia. Però per tutelare i suoi interessi, e un po’ perché non è stimolato, egli preferisce parlare di quello e così diventa una firma anche un po’ scomoda.

Torniamo alla Nazionale. Camoranesi, Balotelli, Amauri e Ledesma: sta diventando un’Italia sempre più oriundizzata.
Dal punto di vista sia tecnico che sociale, pensi che sia legittimo l’inserimento degli oriundi nel gruppo azzurro? È la conseguenza di una società sempre più multietnica oppure loro tolgono solo spazio ai giovani “italiani doc” che da sempre sognano di indossare la maglia azzurra?

Credo che ci sia da fare un discorsi di intelligenza. Cioè: è legittimo, perché dal momento in cui uno ha il passaporto italiano ha dei diritti tra i quali quello di essere convocato in Nazionale. Ma va fatto prima un ragionamento di qualità, cioè uno deve essere veramente bravo se no è inutile, altrimenti veramente togli spazio ai giovani italiani. Poi io farei anche un discorso di attaccamento al Paese e alla maglia: i giocatori che fino all’ultimo non decidono se stare con la Nazionale italiana o con un’altra, temendo di essere scartati da quella di origine, non li vorrei. Questo è chiaramente ciò che è successo con Amauri. Uno deve crederci e dire sin da subito che si sente italiano e di voler giocare per l’Italia, ma chi ci pensa troppo non dovrebbe essere convocato. Io sono molto per l’attaccamento alla maglia.

Basta col calcio, passiamo ad altri argomenti. Per Libero hai realizzato 100 interviste-ritratto di calciatori spariti dalla scena e da quattro anni curi la rubrica “Soggetti Smarriti”.
Da dove nasce l’idea di andare a ricercare personaggi famosi dello sport, dello spettacolo e della politica che sono scomparsi dalla scena da molto tempo? Che tipo di rapporto riesci ad instaurare con loro?

Come tutte le cose, quella delle interviste ai personaggi spariti, è un’idea nata per caso. Nel 2000, primo anno di vita di Libero, il direttore di allora, Alessandro Sallusti [oggi direttore responsabile de Il Giornale], venne alla sezione sportiva per proporre un’intervista a Claudio Gentile, l’ex campione del Mondo con la Nazionale dell’82, ma non per parlare di calcio bensì di ciclismo, che è la sua seconda passione. Questa proposta non suscitò molto interesse tra i redattori dello sport per cui, dopo parecchi richiami e insistenze da parte di Sallusti, venni scelto io come inviato. Sono perciò andato a fare quest’intervista a Gentile, che in quel periodo era un po’ scomparso dalla scena. Andò molto bene e fu molto divertente; perciò il direttore mi disse che da quel momento avrei dovuto continuare a fare interviste di questo tipo.
Ho cominciato la mia serie di interviste concentrandomi esclusivamente su ex calciatori, per poi decidere di allargarmi ad altri settori; però questa decisione la presi il 5 settembre 2001 e in seguito agli attentati dell’11 settembre scoppiò il casino e perciò mollai tutto. Sono tornato sui miei passi quattro anni fa con la rubrica “Soggetti Smarriti” nella quale prendo in considerazione per le mie interviste personaggi appartenenti a tutti i settori e non più soltanto del calcio.
Posso senz’altro dire che nel novanta per cento dei casi i rapporti con le persone che ho intervistato sono stati veri e cordiali. Infatti le interviste arrivano a durare anche tre ore, per cui spesso si instaura con l’intervistato un certo feeling.

Tra le tue tante interviste ne spicca una particolarmente curiosa: quella a Topo Gigio. Da dove è nata l’idea? Che tipo di intervista è stata quella col pupazzo più famoso d’Italia? Te lo sei ritrovato davanti per davvero o Maria Perego, ovvero “sua mamma”, ne faceva le veci?
L’idea è nata una sera a cena raccontando a delle ragazze che avevo appena intervistato Manuela Blanchard, la conduttrice di “Bim Bum Bam”, assieme a Paolo Bonolis e al pupazzo Uan. Una delle ragazze allora mi chiese: “La prossima intervista a chi la fai, a Topo Gigio?”.  Lei aveva ovviamente fatto una battuta, ma in realtà questa cosa mi aveva affascinato e da lì mi è scattata veramente l’idea di realizzare un’intervista su Topo Gigio.
È stato un lavoro lunghissimo nella preparazione, perché io non riuscivo a rintracciare Maria Perego. Ho fatto la posta sotto casa sua per un paio di settimane senza mai riuscire a trovarla. Poi ho intervistato un altro personaggio che la conosceva, mi sono fatto dare il numero e così l’ho contattata. In quel momento mi è venuta l’idea di intervistare non Maria Perego che raccontasse Topo Gigio, ma di intervistare Topo Gigio tramite Maria Perego, dato che è lei che l’ha inventato e lo ha sempre animato. Le ho così proposto questa mia idea e abbiamo fatto in modo che il pupazzo fosse fisicamente presente e parlasse con la sua voce.
Dopo aver pubblicato l’intervista mi è arrivata la mail di un lettore che mi diceva: “Ah, ma ha intervistato Topo Gigio! Ma si sente bene?” e io ho risposto: “Io mi sento molto bene, lei che non ha capito l’intervista forse non sta bene!”. È ovviamente un’intervista che va capita ed è chiaro che è stato come un gioco che è servito per raccontare un grande personaggio tramite chi lo ha inventato.

Di tutti i personaggi smarriti che hai intervistato, qual è quello che ti ha colpito di più? E qual è l’intervista che ricordi con più affetto?

È difficile rispondere a questa domanda perché le interviste che ho fatto e i personaggi che ho incontrato sono tanti. Molti mi hanno colpito per aspetti diversi così come molte le interviste le ricordo con affetto per tanti aspetti.
Per cui mi sento sicuramente in dovere di citare l’episodio di Vermicino, soprattutto per la drammaticità della storia [in questa vicenda, risalente al giugno del 1981, il piccolo Alfredo Rampi, un bambino di sei anni, era caduto in un pozzo nelle campagne di Vermicino, presso Frascati (Roma), senza purtroppo riuscire ad uscirne vivo. Del’Orto in quell’occasione intervistò uno dei soccorritori che era sceso giù nel pozzo per cercare di salvare Alfredino, senza riuscirci].
Poi ci sono personaggi che mi hanno affascinato, come Luciano De Maria che era la mente della cosiddetta “Banda di via Osoppo”, che fece la storica rapina del 1958 a Milano a un furgone portavalori, rubando centocinquanta milioni.
Sono rimasto anche molto legato a Guido Angeli, il personaggio che faceva la pubblicità per il mobilificio Aiazzone con lo slogan: “Provare per credere!”. Voleva un ricordo scritto da me e siccome lui è morto di sabato, la moglie non ha voluto comunicare la notizia della sua morte fino a lunedì in modo che potessi scrivere un commento. Questo per dimostrare il rapporto molto intenso che avevo con lui e la sua famiglia.
Ma comunque è difficile trovare un personaggio in particolare, anche perché alla fine succede che ti affezioni a tutte le persone che intervisti, per tanti motivi diversi.

Parlando di “interviste impossibili”. Quale persona scomparsa o irraggiungibile avresti voluto intervistare?
L’unica persona che non sono mai riuscito ad intervistare è Donatella Raffai, la giornalista che ha condotto “Chi l’ha visto?” fino al 1994. So di non essermi impegnato al 100% nella sua ricerca, ma a questo punto è diventata quasi una sfida. È anche un po’ una beffa, un paradosso: l’ex conduttrice di “Chi l’ha visto?” completamente sparita! Si dice che si sia trasferita in Francia, ma non è certo.
Tutte le persone che volevo intervistare sono sempre riuscito a trovarle; poi ovviamente è capitato che qualcuno dicesse di no, ma comunque sono sempre riuscito a rintracciare tutti. Di lei non ho trovato neanche un contatto.

Dal punto di vista giornalistico, c’è qualcuno che consideri un maestro, che ti ha insegnato il mestiere, facendoti appassionare giorno dopo giorno?
Anche in questo caso è complicato dare una risposta perché quasi tutte le persone con cui ho lavorato mi hanno fatto appassionare al mestiere e mi hanno insegnato qualcosa.
Sarebbe troppo facile fare dei nomi come Sallusti, Vittorio Feltri o suo figlio Mattia, che è stato mio compagno del ginnasio ed è grazie a lui che mi è nata la passione del giornalismo. Al di là di questi grandi personaggi, quindi, citerei invece cronisti semplici che non hanno fatto nessuna fortuna e anzi adesso magari vivacchiano in provincia. Ma negli anni in cui lavoravo con loro ho imparato da tutti qualcosa perché  ho avuto la capacità di cogliere le loro migliori qualità facendole mie e perciò considero tutti questi colleghi un po’ come dei miei maestri.

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