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Impero

Racconto di Lorenzo Iuliano – 2° classificato al Concorso Letterario “Sogno, superstizione, magia” 2022.

Mentre il mantello svolazzava e sfiorava la lunga siepe del giardino, i passi, lunghi, pesanti, affondavano nella ghiaia lasciando dietro una nuvola bianca. Alla fine della siepe, l’uomo svoltò senza guardare, attraversò un porticato e sbucò in un’altra corte: il gatto che dormiva lì scattò via dietro a un pozzo.
Ancora un corridoio, un’altra siepe, un altro cortile: il soldato cominciava ad ansimare dalla fatica, mentre la polvere sul viso si mescolava al sudore. Nella corte che attraversava ora, c’era una palma curva come una vecchia che cerca il bastone, ma l’uomo non la vide perché andava di fretta. Camminò a passo di marcia per ore, passando per molti corti, cortili, portici e porticati, calpestò miliardi di sassolini di ghiaia, versò centinaia di gocce di sudore mischio a polvere bianca, esalò qualche migliaio di ansimi, prima di giungere al grande palazzo. A fianco del portone, vicino al muro assolato, un anziano servitore sonnecchiava a bocca aperta, seduto su uno sgabello: al soldato da lontano sembrò morto in un urlo disperato. Un tempo, quel servitore dai grossi baffi gli avrebbe preso la spada e il pugnale e lo avrebbe scortato attraverso le viscere fino al cuore del palazzo, ma ora non avrebbe avuto senso svegliarlo per questo. In un attimo il buio delle scale aveva risucchiato l’uomo e il suo passo.

L’Imperatore stava giocando a dadi da solo. Lo faceva da quando era bambino, da quando uno schiavo gliene aveva regalati due d’avorio. Prima di lanciarli, cercava di indovinare il numero che sarebbe uscito: si compiaceva quando usciva il 7 (3 più 4), perché è quello matematicamente più probabile: voleva dire che il caso quel giorno aveva perso forza e aveva allentato la sua morsa sul mondo. Un sogno ricorrente dell’Imperatore era quello di fare uscire il 7 per 7 volte: la sconfitta della casualità, la vittoria del numero sarebbe stata troppo schiacciante per essere, a sua volta, solo un caso: sarebbe stata definitiva. Ma ovviamente ciò non era mai accaduto.
I dadi rotolarono sul tavolo di ebano, incocciandone gli intarsi colorati: quando si fermarono al bordo, vide che all’altra estremità dello scrittoio stavano ritti dei pantaloni sgualciti.
«Mi dica, generale», disse, alzandosi e guardando in faccia l’uomo che ancora ansimava.
«Sono a tre giorni di cammino, si stanno avvicinando».
«E la battaglia? Mi aveva detto il generale Del Grossi che ci sarebbe stata una battaglia».
«C’è stata, il generale è caduto».
L’Imperatore chiuse gli occhi e, dopo un sospiro, disse: «Ho capito. Mi faccia vedere sulla carta». I due uomini si diressero verso un grande tavolo ovale dove si estendevano le mappe dell’Impero. In altri abiti, in altri luoghi avrebbero potuto essere amici perché erano su per giù coetanei. Ma in questa storia erano l’Imperatore e il suo generale che andavano a guardare le mappe di un Impero che moriva.
«Lo scontro è avvenuto qui, vicino a questo fiume», disse il militare.
«E allora? Qual è stato il problema questa volta?», la mano dell’Imperatore con il grosso anello dinastico colpì il tavolo.
«Sono troppi, signore. I nostri ci hanno provato». Mentre parlava senza scomporsi, lo sguardo del giovane generale fissava un angolo buio della sala, perché gli avevano insegnato che non poteva guardare l’Imperatore.
«Tre giorni, ha detto?»
«Sissignore: tre giorni. Forse due».
L’Imperatore si avvicinò al viso del soldato e gli prese la spalla, stringendola. Si schiarì la voce e disse:
«Di’ a quella massa di inetti dello Stato Maggiore che voglio risultati immediati e concreti: voglio una vittoria netta sul campo: voglio vederli crepare, hai capito?». L’Imperatore finì la frase alzando il tono, mentre lasciava la presa. «Sissignore», sussurrò, invece, l’altro.

La guerra c’era da molto prima che quest’Imperatore salisse al potere: l’inizio del conflitto risaliva ad anni, forse secoli prima. Quando era scoppiata, nessuno lo aveva saputo: l’impero era troppo grande e le notizie che provenivano dai confini dovevano essere trasmesse da generazioni a generazioni di
messaggeri prima che giungessero a palazzo. Dato che nessuno viveva abbastanza a lungo da attraversare l’immenso territorio nell’arco di una sola esistenza, queste famiglie di messaggeri si spostavano verso la capitale in carovane, insegnando ai loro figli le notizie sotto forma di filastrocche in
endecasillabi, perché non se le dimenticassero. Questo giovane Imperatore fu l’unico Imperatore della Storia a sapere di una guerra nell’Impero. Un uomo sulla cinquantina con una lunga treccia, come quelle che si portano al Nord, era stato il primo a parlarne, ma non credeva neanche lui alla filastrocca che cantava. Non accadeva di rado, infatti, che una notizia passando da una generazione all’altra mutasse del tutto, subendo ogni tipo di malformazione: arrivavano alcune storie senza inizio, altre senza fine, alcune, al contrario, avevano diversi svolgimenti, un doppio inizio o una triplice fine. I dotti che vivevano a palazzo dovevano ricostruire la storia originaria, tagliando via le versioni sbagliate come si fa con i rami secchi, per poi riferirla all’Imperatore. Da tempo però i dotti non venivano più interpellati, perché le notizie arrivavano dalla bocca di chi aveva visto le cose accadere: ogni secondo l’Impero si restringeva, accartocciandosi su se stesso, inesorabile.
La filastrocca sulla guerra che cantò l’uomo dalla lunga treccia non venne creduta: i dotti dissero che sicuramente la parola “guerra” era una metafora per qualcosa come carestia o peste. Tuttavia quando giunsero, separatamente e in vari anni, decine e decine di messaggeri che parlavano di un conflitto ai
confini, i dotti ritennero che la tradizione della notizia non poteva essere scorretta allo stesso modo in filoni indipendenti e trassero la conclusione che l’Impero era effettivamente in guerra.

L’Imperatore, appena il soldato uscì dalla sala, segnò con una croce il luogo della battaglia, dove gli era stata indicata: si chiedeva che posto fosse quello, che popolazione ci abitasse, che lingua parlasse. Lui non poteva saperlo, non era mai uscito dal palazzo, seguendo la tradizione millenaria per cui l’Imperatore doveva stare al centro dell’Impero, là dove era stato fondato, come un ragno al centro della sua tela. Un senso di sorpresa lo colse, quando, voltatosi, si accorse che i dadi che aveva lanciato prima che entrasse il generale avevano dato un 7. Un 7, quel giorno, non lo capiva proprio: il giorno della sconfitta qualsiasi altro numero avrebbe avuto senso, ma non il 7. Per cancellare quel frammento di caos, l’Imperatore si affrettò a rilanciare i dadi: uscì un altro 7. Non capiva, rilanciò un’altra volta: il primo dado rotolò sul tavolo, si fermò: 4. Il secondo saltellò un po’ prima di voltarsi e mostrare la faccia del 3. L’Imperatore si guardò attorno attonito: sembrava un bambino che controlla che non ci siano mostri nella camera buia. Lanciò i dadi altre 4 volte e, manco a dirlo, uscì sempre e solo 7. L’Imperatore si lasciò cadere sulla poltrona, mentre osservava l’ombra che i dadi proiettavano sullo scrittoio: l’ombra si allungava e cadeva sul pavimento, ora, strisciando, lambiva il muro e, arrampicandosi come un edera, arrivava alla grande finestra che dava sul cortile: fuori il sole era quasi tramontato.

Nè il giovane generale né il suo Imperatore potevano sapere che, mentre parlavano, il nemico era entrato nella prima corte del palazzo a Sud. Per ore l’Imperatore, chiuso nella sua sala, all’interno del palazzo, credette di regnare su un Impero immenso. Ma era solo un sogno.

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