#OSCAR2015 – BOYHOOD

In corsa per sei Oscars, Boyhood ha già vinto tre Golden Globes e tre BAFTA. Miglior film, miglior regista e miglior attrice non protagonista. Ma se la scia di riconoscimenti non dovesse intrigare a sufficienza, a suscitare interesse sarà lapproccio alla regia, finora unico. Boyhood permette, infatti, di seguire la crescita del protagonista e vedere realmente l’attore che lo interpreta trasformarsi, con la sua voce che si fa profonda, i lineamenti che si induriscono. Senza l’impiego del solito secondo attore per la parte del protagonista-da-bambino, che inevitabilmente infrangerebbe l’illusione di realtà che la pellicola cerca di ricreare.

Il regista Richard Linklater (premiato anche al Festival di Berlino) ha scelto di girare sempre con lo stesso cast. Le riprese sono andate avanti per dodici anni. Sono iniziate nel 2002 e con una sceneggiatura puramente indicativa, perché negli anni potesse essere adattata ai cambiamenti degli attori e della società. Scelta audace, rischiosa perfino, ma una scelta che paga. Fortunatamente, nessun incidente, nessun attore che dà forfait, e si è rivelata adeguata anche la scelta degli interpreti più piccoli, ingaggiati quando avevano solo otto anni. Boyhood si apre infatti con l’infanzia di Mason Jr, un comune bambino della provincia texana, che al fare i compiti preferisce fare graffiti e collezionare punte di lancia. Comune (nei limiti) anche la famiglia, con Olivia e Mason Sr, i due genitori diventati tali troppo presto e altrettanto presto divorziati, e Samantha, la sorella maggiore che a scuola prende tutti 10. La trama percorre le tipiche fasi che portano Mason al diploma: iEllar-Coltrane-5-facts-about-Boyhood-actor-through-the-years-Civer litigi con la sorella, con i fidanzati sbagliati dellamadre, i traslochi, le amicizie, il ciuffo “emo”, il piercing, l’inizio dell’amore per la fotografia, la fine dell’amore incontrato al liceo. E questo è tutto. Niente intrecci complessi, niente drammi. Solo momenti accostati di quotidianità semplice, con il passare degli anni scandito solo sullo sfondo, dai telegiornali in tv, dalla campagna elettorale di Obama del 2008, dalla tecnologia dei cellulari che si evolve.

Un’altra scelta audace, che vede il contenuto, il ritratto generico di un adolescente, diluirsi in una sequenza di scene lunga 2 ore e 45 minuti. Ma landamento (volutamente) lento riesce restituire la cadenza della vita reale, che viene ricostruita com’è, con le sue banalità anche, ma senza retorica, senza tentare di interpretarla.

Qual è il punto di tutto questo?. La domanda arriva, puntuale, durante gli ultimi minuti. Protagonista e spettatore si aspettano un insegnamento da portarsi dietro al college e all’uscita del cinema. Ma Linklater non ha in mente quel genere di film. Fingere significati sofisticati non gli interessa. Quello che rincorre è lautenticità, anche a costo di dare a Boyhood quasi il sapore del documentario. Per questo è un po’ curioso immaginarlo tra gli altri film candidati all’Oscar, tutti con vicende fuori dall’ordinario. Mentre dell’ordinario Boyhood è la delicata, genuina mimesi. Ma, chissà, forse si distinguerà proprio per questo.

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