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Il punto letterario (18) – Istituzioni di ordinaria e sana follia

di Elena Di Meo

Caro dottore, chi non vorrebbe apporre questo incipit alla sommità di un elenco di insulti indirizzati a colui che crede di essersi spinto con le sue teorie nei meandri inconsci sconosciuti persino al paziente. Una pretesa piuttosto indiscreta, considerando il quantitativo di anni che il protagonista è chiamato a riportare alla mente affinché renda partecipe la voce estranea alla sue spalle delle disavventure proprie di un animo malato. Chi fa dell’ascolto il proprio mestiere non può ignorare l’inattendibilità della storia che gli viene raccontata, se a rendere concreti i fatti e le emozioni è il soggetto che li ha vissuti in prima persona. Se parole e atteggiamenti indimenticabili sono filtrati da quella stessa mente che, a causa del coinvolgimento emotivo di cui è rimasta vittima, non sarà mai obiettiva. D’altra parte colui che decide di lanciarsi in confidenze, alla ricerca dell’origine dei propri traumi, rimane esterrefatto di fronte al rimosso emerso per via della cura senza che egli riconosca veramente di essere colpevole. Tutte le carte giocate da lui per dimostrare la sua innocenza cadranno al primo soffio della consapevolezza che i tentativi di autogiustificarsi non potranno soffocare i sensi di colpa.

Prima o poi dunque capiterà di identificarsi nell’uno o nell’altro soggetto – la mancanza di una laurea in psichiatria o di un attestato da disadattato sociale non può frenare un bisogno impellente di prestare orecchio alle vicissitudini altrui, oppure di dar fiato alla bocca e tradurre in un profondo sospiro un fiume di parole. Ma che ci si trovi dalla parte del bambino desideroso di prender sonno o del cantastorie, i contenuti che riempiranno un certo luogo a una data ora andranno a tessere la trama del medesimo racconto. Vizi inarrestabili, rimorsi e aspettative deluse sono i fili che accomunano le vite di qualsiasi uomo – persino di chi, suo malgrado, si trova ad adottare un punto di vista originale quando invece anela alla normalità tipica di un pater familias o di un businessman. Ed è l’occhio che valuta gli eventi a fare la differenza nel momento in cui si traccia il confine che separa il sano dal malato: il primo preferisce adagiarsi in una forma cristallizzata, soddisfatta della realtà e incrollabile nelle certezze; il secondo non sceglie di assumere una posizione svantaggiata per suo capriccio e, anche se questo dovesse comportare la rinuncia al dinamismo che ne deriva, sarebbe stato lieto di barattare l’inettitudine per l’omologazione alla massa. Se ci si dovesse render conto poi che il modello di buona salute a cui si anela in realtà è la vera malattia, cadrebbe ogni punto di riferimento e allora si potrebbe accennare all’inefficacia di qualsivoglia terapia incentrata sulla psiche. Scoperta che, se vera, non sarebbe minimamente paragonabile alla catastrofe generata dagli ordigni degli uomini, interessati come sono al progresso di oggetti estranei alla mente a al corpo. Punto!

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