Autobiografia: che ci faccio qui?
«Tutto ci sfugge. Tutti. La vita di mio padre la conosco meno di quella di Adriano, la mia stessa esistenza se dovessi raccontarla per iscritto, la ricostruirei dall’esterno, a fatica, come se fosse quella di un altro. Dovrei andare alla ricerca di lettere, di ricordi di altre persone, per fermare le mie vaghe memorie. La vita di ciascuno di noi è così: sono sempre mura crollate e zone d’ombra. […] Ci si sbaglia, più o meno»
Marguerite Yourcenar ne Le Memorie di Adriano
La terza di quattro conferenze tenute nel collegio S. Caterina da Siena è stata guidata da Silvana Borutti, professoressa di filosofia teoretica presso l’Università di Pavia, e Giovanni Battista Foresti, medico psichiatra e psicoanalista, ed ha abbracciato un vasto campo di contenuti partendo da alcune intense e toccanti riflessioni.
L’autobiografia è uno dei tanti modi, e anche il più evidente, di provare a fare un bilancio, non necessariamente in pareggio, di ogni passo rilevante di vita, di formare coerentemente un percorso che racconti eventi, aneddoti, giornate, angosce e gioie con la dose d’intimità e verità che l’autore decide di affidarle. Per dirla alla maniera di Philippe Lejeune l’autobiografia è “il racconto retrospettivo in prosa che un individuo reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della propria personalità“.
La Youcenar mette l’accento sulla difficoltà posta dall’autobiografia, quella di conoscersi. Quanto possiamo dire di conoscerci? E quanto decidiamo di farci conoscere ai lettori?
Si tratta di un procedere incerto verso la ricostruzione, o meglio, la ‘costruzione’ della propria storia attraverso non solo i nostri dati ma tutti quelli che possono esserci utili, forniti da vari punti di vista di conoscenti, parenti, amici, espressioni, impressioni. Tutto questo raccontarsi vuol tessere un abito per mano dell’azione modellante della memoria, dell’enfasi e del desiderio di sé che stringe e mette il punto lì dove le pagine non aderiscono alla verità.
Rousseau nell’incipit delle sue Confessioni decide di mostrare ai lettori un uomo che si mostra in tutta la verità della sua natura: «et cet homme, ce cera moi». Per scrivere di se stesso usa la terza persona singolare, distanziandosi dal proprio io, senza però uscire da sé. Senza che la finzione si palesi, si instaura un tacito “patto di veridicità” tra il sé raccontato e il sé raccontante, tra l’autenticità e la maschera. Nel mezzo ci sono tutte quelle cose che si decide di non raccontare: il non detto, gli spazi bianchi che raccontano quello che la nostra psiche non è disposta a mettere al servizio di occhi indiscreti. Le parole inchiostrate e quelle soffocate ancora nella mente si mescolano. Di questo, degli spazi bianchi, c’è chi decide, come Vladimir Nabokov in Parla, ricordo, di parlarne evocando immagini strazianti del mondo in assenza di sé: una carrozzina adibita a bara vuota e la vista di una madre che manda un saluto ad un figlio che non esiste.
Nabokov si fa una domanda che appartiene a tutti e con la quale Bruce Chatwin ha deciso di intitolare un libro scritto negli ultimi mesi della sua vita: “Che ci faccio qui?”
Non una semplice domanda ma probabilmente ‘la’ domanda di tutto il percorso, che del resto sembra destinato a chiudersi su un’ambiguità, ovvero il controverso rapporto con il tempo. L’autobiografia lascia il finale inevitabilmente aperto o meglio lo chiude spinto da una pulsione cosiddetta tanatografica, cioè una pulsione a darsi la morte, per il semplice fatto che la fine autobiografica non è pensata; arriva, imponendosi quale ultima pagina, ultima ora segnata su un diario, ultima lettera spedita. L’epilogo non può essere programmato.
E qui si gioca la nozione di terminabile e interminabile propria dell’autobiografia, un orizzonte manifesto davanti al quale non si può chiudere gli occhi. Il tempo, a cui tutto è soggetto, è il fil rouge di argomenti e avvicendamenti, è il soggetto principale nella finzione finale dell’auto rappresentazione.
Quanto di vero c’è nelle parole narrate, tanto può esserci di manipolato bonariamente dalla propensione umana alla sistemazione coerente, alla disperata ricerca di un senso, che non necessariamente si palesa.
Non si spiega, il mistero della vita non trova riposo, e sconcertante sarebbe pensare il contrario. «Né con la biologia, né con la teologia» – scrive Montale – « la vita è molto lunga anche quando è corta come quella della farfalla, la vita è sempre prodiga anche quando la terra non produce nulla, furibonda è la lotta che si conduce per renderla inutile o impossibile».
Lasciatevi condurre in errore allora, dalla mano veloce, dai ricordi annebbiati, dalle foto ingiallite, dai filmini tagliati, dalle scarpette su un chiodo piegato, dai suoni di voci che bastino a dirvi il necessario per incedere, incespicando. In ogni caso, è bene ricordarlo: ci si sbaglia, più o meno.