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La ricerca della felicità – e di un po’ di umanità

Ebbene sì, ci sono cascata anche io. Avete presente i classici lavoretti/truffa part time che di tanto in tanto finiscono a Striscia la Notizia? “Azienda non ben identificata (ma con rigorosa pagina su Facebook) che si occupa della vendita di questo o quel prodotto, preferibilmente porta a porta o tramite call centre, cerca operatrice o addetta alle vendite”.

Ecco, proprio questo tipo di lavoro. Ci sono cascata.
La simpatica azienda in questione attirava la propria preda con la promessa di un contratto, un fisso mensile – seppur minimo –  e una percentuale su ogni vendita effettuata. Ho pensato: «Be’… È un lavoretto tranquillo, nemmeno troppo distante da casa. Viene bene giusto per tirar su quei 300/350 € che mi evitano di pesare troppo sul portafoglio di mamma mentre cerco di finire gli studi. Accetto!»

Non l’avessi mai fatto.

Arrivederci – e grazie!!!

All’inizio nessun intoppo particolare: si parte con i classici tre giorni di prova, al termine dei quali ti viene confermata l’assunzione – sì, ti viene confermata verbalmente. Ma lasci correre, sei lì da appena tre giorni e cerchi di non stare con il fiato sul collo alla tua responsabile: vuoi fare una buona impressione, non vuoi rompere le scatole.
Povera illusa, avrei dovuto capire subito come sarebbe finita la storia. Tranquilli, non starò qui ad annoiarvi raccontandovi tutta la vicenda, mi limiterò a dirvi che dopo un mese di lavoro in nero da sei ore al giorno sono riuscita a portarmi a casa la bellezza di 200 euro, comprese le provvigioni.

 

Un mese a chiamare centinaia di persone a casa che (comprensibilmente) ti mandano a quel paese non appena capiscono che sei un’operatrice di call centre. Un mese in cui, nonostante tutto, riesci a far guadagnare all’azienda un bel po’ di clienti e tutto ciò che ci guadagni sono 200 euro e un calcio in culo.

In tutto questo, mentre camminavo arrabbiata per la strada con i miei 200 euro in tasca e il telefono alla mano in linea con la Guardia di Finanza, non ho potuto fare a meno di pensare a una storia: la storia di un uomo di nome Chris Gardner, una storia a un passo dal sembrare una favola eppure una storia vera. Una storia che nel 2006 Gabriele Muccino decise di raccontare al mondo regalando al cinema il capolavoro La ricerca della felicità.
Ci troviamo a San Francisco nei primissimi anni Ottanta. Chirs Gardner (Will Smith) è un brav’uomo costantemente deluso e truffato dal prossimo, che ama la propria famiglia e fa di tutto per mantenerla e tenerla al sicuro. Eppure qualcosa non va. Dopo aver investito tutti i propri risparmi in una partita di scanner medici, Chris si trova a un passo dal perdere tutto: nessun ospedale sembra interessato ad acquistare la sua macchina innovativa, giudicata dai medici troppo costosa e poi non così utile. I soldi cominciano a scarseggiare, la vita si fa sempre più dura, finché la sua intera esistenza finisce per diventare un inferno. La moglie Linda (Thandie Newton) decide di lasciarlo, e da un giorno all’altro Chris si ritroverà in mezzo a una strada con il figlioletto Christopher, senza nemmeno il denaro sufficiente per garantirgli un letto dove passare la notte – tanto che i due saranno costretti, in una delle scene più toccanti del film, a dormire per terra chiusi in uno dei bagni della metropolitana.
Con mille sforzi e grande sofferenza, Chris riuscirà a entrare come stagista alla Dean Witter, una grossa azienda di consulenza finanziaria che però non gli fornirà alcuno stipendio per tutta la durata del corso: scopo di tale corso sarà contattare un consistente numero di clienti per la Dean Witter e garantire all’azienda il maggior numero di contratti. Durante il periodo di stage Chris si ritroverà oppresso dalla vita come mai avrebbe pensato: solo, senza casa, senza soldi e senza amici, con un bambino da accudire e da proteggere da quel mondo che stava mostrando loro la propria faccia più crudele. Contro ogni aspettativa e puntando solo sulla propria forza, sulle proprie capacità, restando saldamente aggrappato ai propri sogni, ai propri principi e ai propri obbiettivi, il protagonista riuscirà a scalare quella montagna e tornerà finalmente a vedere la luce.

 

La ricerca della felicità è un film che a dir poco emoziona, ancora di più per il fatto che racconti una storia vera e che non sia il frutto della fantasia di qualche ottimo regista o scrittore di romanzi. Will Smith nei panni di Gardner è assolutamente straordinario e il fatto che a interpretare Christopher sia il suo vero figlio (Jaden Smith) crea un’atmosfera, un’intesa e un amore che non potrebbero essere più autentiche.

 

Le vicende di quest’ultimo anno, gli annunci sui giornali, le manifestazioni e persino il cinema – con film come Girlfriend in a coma, Viva la libertà e Benvenuto Presidente! – non hanno fatto altro che evidenziare il tracollo politico/economico/sociale di questa nostra povera nazione, di come questa maledetta classe politica ci stia lentamente uccidendo. Eppure, all’uscita da quello che era stato il mio ufficio per un mese, mi sono trovata a pensare che il vero problema del nostro Paese sia il popolo stesso. Non voglio creare polemiche, non voglio puntare il dito senza criterio contro l’onesto lavoratore che sgobba dalla mattina alla sera per quelle 1000 € che dovrebbero permettergli di mantenere se stesso e la propria famiglia e non voglio inneggiare a nessuna forma utopica di amore e fratellanza planetaria, ma non ho potuto fare a meno di pensare che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato nella mia piccola esperienza lavorativa andata male. Qualcosa di sbagliato proveniente dal basso, non dal Parlamento italiano. Il popolo dovrebbe sostenere se stesso.

Le persone dovrebbero aiutarsi, non cercare di fregarsi a vicenda, specie nel momento in cui qualcun altro sta già mangiando senza ritegno sulle nostre teste.

«Se i politici sono mediocri è perché i loro elettori sono mediocri»

Ok, mi rendo conto di quanto questo possa sembrare banale e scontato e di quanto possa sapere di luogo estremamente comune. Ma forse la soluzione è davvero nascosta in quelle cose così piccole da risultare quasi ridicole. La ricerca della felicità racconta la storia di un uomo che riesce a cambiare radicalmente la propria esistenza, trovandosi a poter contare solo su di sé, ma finendo anche per scoprire che non tutti al mondo tentano solo ed esclusivamente di fregarti. Non sarebbe male se storie di questo tipo risultassero meno vicine alla fantasia e più alla realtà.

 

Utopia? Forse.
A me fa piacere credere che non sia così…

 

O almeno, lo spero.

Un pensiero su “La ricerca della felicità – e di un po’ di umanità

  • LORIS FURLAN

    Ho visto da poco il film di cui parli. “La ricerca della felicità” propone – non con il taglio di un realismo crudo – un’esperienza individuale estrema per un occidentale. Il protagonista, probabilmente abituato alle frustrazioni e dopo aver collezionato una serie di delusioni, decide di accettare un’occasione per uscire dalla situazione difficile in cui si trova: uno stage non retribuito di sei mesi presso una compagnia di intermediazione finanziaria più una fievole speranza di essere assunto alla conclusione. L’unica strada, non ha alternative e la percorre tutta a ogni costo, quasi fosse l’ultima possibilità che la vita gli offre. Immaginiamolo solo (e non nella – fuorviante – relazione con il figlio, che poi caratterizza il film). Solo invece, come in fondo è (e come mi pare sia stato il vero Chris Gadner, a cui il film è ispirato). Nessuna famiglia di origine che possa sostenerlo. Le istituzioni pubbliche che si fanno vive soltanto per esigere i propri crediti (nessun vigile urbano che strappi bonariamente i verbali delle multe che invece è costretto a saldare con l’aggiunta di una notte in gattabuia, un prelievo d’ufficio dal conto corrente per rientrare delle imposte arretrate dovute). Nessuna clemenza nei confronti della sua morosità-non-colpevole per l’affitto di casa e nessuna traccia di assistenza per il mancato guadagno prolungato nella sua professione. Ha l’aiuto di un gruppo di volontariato per le notti in dormitorio e qualche pasto alla mensa dei senzatetto, ma possiamo immaginarlo – in un contesto diverso – mentre va a dormire nelle sale d’attesa di qualche stazione ferroviaria o di un aeroporto e, a fine mercato, quando va a rovistare tra i resti per rimediare qualcosa. Non sa mai dove andrà a passare la notte, non è sicuro che mangerà. Per tutta la durata dello stage, solo lavoro-studio; relazioni sociali inesistenti. Arriva a modificare le sue buone maniere e i suoi comportamenti abituali: non dà la precedenza alle signore, prende tempo per pagamenti vari perchè non ha denaro, tenta di mettere le mani nelle tasche di un amico che gli deve una piccola somma, per non pagare un tassista – perchè non è in grado – si dà alla fuga, va per le spicce quando si tratta di riprendersi quello che è suo. Lui sa solo che non farà trasparire nessun problema nel nuovo ambiente di lavoro perché è così che è meglio fare in un’azienda. Non che non si renda conto però del cinismo da cui è attorniato (non è forse sarcasmo quando, nel mettere al caldo Cap. America, ha per lui tante pseudoattenzioni? Non è facile intuire ciò che sta pensando quando uno dei soci si congratula per il “fantastico” lavoro che ha fatto procurando alla compagnia molti nuovi clienti, ma che è da mettere, economicamente, tutto a perdere per lui?). Perché uno sputa sangue – o se lo fa prelevare dietro compenso – se lo ritiene indispensabile, ma non lo fa senza amarezza. Né, quando viene assunto, ignora che quell’esplosione di “felicità” è il sollievo per riuscire a far fronte in maniera meno disperata ai propri bisogni primari e che la soddisfazione di aver vinto la sfida con se stesso, l’esito di tutti quei mesi in cui – con tenacia – ha vissuto di stenti sarà solo di “breve periodo”. Anzi lui vorrebbe proprio non essere mai stato messo alla prova in quel modo, vorrebbe aver potuto giocare con tutt’altre carte. Ma questa considerazione non c’è proprio nel film, questa è un’aggiunta tutta mia!
    Loris Furlan

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