Attualità

#IJF14 – Apri gli occhi

di Valeria Sforzini

Essere giornalisti significa essere cittadini del mondo: si appartiene a un luogo, alla famiglia, agli amici, ma se si svolge questa professione non si può impedire che allo stesso tempo nasca un legame con ogni tema divulgato e un forte senso di empatia con i protagonisti delle vicende trattate. Parlare di quello che sta accadendo ora nel mondo, confrontarlo con la nostra quotidianità, cercare di aprire gli occhi alle persone, scavare nella realtà per toccare le corde più profonde dell’essere umano.
L’importanza della voce, delle notizie, della ricerca, delle indagini si manifesta soprattutto in ogni tentativo fatto per soffocarle: i primi ad essere colpiti ad ogni scoppio di rivoluzione o ad ogni attentato alla democrazia sono sempre i giornalisti. Quello che oggi stupisce, a dire la verità, non è il coinvolgimento che cattura il reporter, ma piuttosto l’indifferenza con la quale queste figure vengono prese ad esempio. Perché bisogna aspettare che scoppi una sommossa a due passi dal nostro confine per farci rendere conto dei soprusi e delle violenze che imperversano nel mondo?

Chiudere gli occhi non è mai la soluzione;  fingere che vada tutto bene o che a noi non potrà mai accadere nulla di male è solo un atteggiamento infantile che ci rende degni dell’appellativo “bamboccioni”, ancor più del ritrovarsi a trent’anni a vivere con mamma e papà. Parole che seguono solo ad altre parole. Certo, non si può dire che la classe dirigente di oggi abbia dato un forte impulso all’azione, ma dov’è finito quello spirito di ribellione che ha tanto animato le generazioni passate e che vediamo esplodere in piazza Maidan? La cosa ridicola oggi, dopo aver passato anni a blaterare a proposito di globalizzazione e di fenomeno social, è pensare che quanto accade fuori dal nostro campo visivo non ci influenzi o non dipenda da noi. Basti pensare a quanto sta succedendo in Honduras, a San Pedro Sula classificata come la città con il maggior numero di morti violente del mondo a causa del traffico di cocaina, percentuali che superano cifre di guerra e che hanno portato lo Stato a prendere provvedimenti da brivido come la “funeraria del pueblo”, ovvero ad offrire veglie gratuite alle famiglie funestate da troppe morti ma povere al punto da non potersi permettere di rendere a tutti giustizia.

La mentalità da cambiare qui è soprattutto quella di coloro che ritengono ammissibile che dei bambini vengano uccisi fuori da scuola o che famiglie siano costrette a compiere viaggi pericolosissimi e in condizioni disumane per poter sfuggire al terrore dilagante nel loro paese. Il fatto assurdo è che tutte queste morti, questa povertà , tutta questa infelicità nascono dal dovere procurare la solita polverina bianca ai tanti Lapo del bel mondo che sfrecciano su decapottabili ultimo grido destreggiandosi tra “brunch” e “ape”. Il paradosso in sostanza è che esistano ancora paradossi di questo genere e che se prima il traffico di droga era identificabile con un messicano con il sombrero che scavalcava un recinto per passare il confine con gli Stati Uniti, ora possiamo paragonarlo ad una multinazionale con tanto di amministratore delegato e rimborsi spese. Non siamo mai stati più responsabili, dal momento che l’Italia ha un altissimo consumo e che il ruolo di principale organizzazione broker dello smercio della cocaina è made in Italy: la ‘Ndrangheta, la quale usa i proventi che le vengono per infiltrarsi nelle nostre economie.

Reagire si può, cambiare si può. Non sono i soliti luoghi comuni triti e ritriti, la prova l’abbiamo anche adesso sotto ai nostri occhi: la luce portata da coloro che in Ucraina hanno avuto il coraggio di ribellarsi ad un governo dispotico e ingiusto e che hanno deciso di scendere in piazza manifestando pacificamente ma con la determinazione di chi non è disposto ad arrendersi, che non prende neanche in considerazione l’idea di abbandonare il proprio paese, ma che alza la testa con orgoglio.

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