Concorsi

Cronache interno 13

Di Marco Foravalle – Terzo classificato al concorso letterario Di-Stanze 2020

La signora del primo piano, Piera, anche oggi braccia incrociate sul balcone. Ha dimenticato casa sua. Ogni volta che sbircio ai piani di sotto del mio condominio, a Mirafiori, la signora Piera è lì che guarda il giardino. Era da parecchio che non mi fermavo per così tanto tempo dai miei. Oggi sono venuti due agenti a mettere un nastro biancorosso, ironico festone per Pasquetta, all’ingresso di questo minuscolo luogo verde della periferia torinese. Alt! Nessuno può passare. La signora Piera discute col marito, che però non riesco a vedere, sarà rimasto sul divano, lei piemontese, lui decisamente no, forse calabrese: per loro la storia sembra passare in quel nastro, si discute di libertà, di lotte, di rassegnazione. Li ho incontrati l’altro giorno mentre stavo facendo ordine in cantina, liberandomi – con una bella dose di adrenalina – dei sussidiari delle scuole medie, di vecchi quaderni di aritmetica, nello spirito di un “non si può tenere tutto”. La signora Piera mi aveva domandato se fossi interessato a delle cartine del Touring Club annata 1971. Mi sono accorto che con i miei vicini non ho mai parlato, rappresento un elemento anomalo del palazzo, l’unico rappresentante dei giovani adulti in un complesso di piccoli appartamenti popolati da rumorosi pargoli con genitori litigiosi e burberi coetanei della signora Piera. Ora mi propone delle cartine del Touring Club del 1971. Sorrido, ringrazio, ma gliele rendo.
La signora Piera è rientrata affannata in casa: non ne vuole sapere nulla di quello che sta succedendo. Da un balcone vicino al mio, un uovo, simbolo di creazione e rinascita, è appena atterrato rumorosamente sul suolo pubblico, a mezzo metro di distanza da una pericolosa mamma con bambino su triciclo, olio su tela. È il solito vicino del sesto piano, lo sappiamo tutti, il Patriottico: ore 18,00 inno di Mameli, Nessun dorma di Puccini, gli Anni di Max Pezzali. Ogni tanto gli parte un “Andrà tutto bene”, solitamente alle 17,45, probabilmente mentre sistema lo stereo per fare ascoltare tutti i versi dell’inno, perché lui ne sa di più. È il guardiano del parco, il nostro gigante egoista, che protegge le nostre aree cani da quest’atomo opaco del Male. Siamo tutti dietro le tende a vedere come evolverà la situazione: un uovo ancora non si era visto. La donna viene subito soccorsa da un altro pericoloso passante e tutto volge rapidamente alla normalità – della quarantena. Il nastro sghignazza smosso dal vento.
Continua l’inno, siamo a “dall’Alpe a Sicilia dovunque è Legnano; ogn’uom di Ferruccio ha il core e la mano”, i ragazzi del palazzo di fronte stanno consumando quella che dagli effetti pare senza dubbio una grossa canna e la signora Piera è spuntata nuovamente dalla sua testuggine. Penso che quel nastro biancorosso mi stia stupendo più del dovuto, quel parco risultava chiuso già da parecchie settimane per la gestione dell’emergenza, ma vederlo lì mi atterrisce, conferisce a quel giardinetto un nuovo valore, lo rende tana dei nuovi arrivati, scoiattoli e merli per lo più. So che non durerà e che presto qualche altro vicino, un po’ più intraprendente degli altri, affronterà di petto questo nodo gordiano e riaprirà il passaggio ma nel frattempo mi incupisco e mi scopro tagliato fuori da questo recinto sacro. Torno in cantina, ho ancora qualche quaderno da sistemare, incontro il pensionato single del quinto piano. L’ho chiaramente colto in flagrante, occhiali da sole sportivi, tuta attillata verde pistacchio, bici da corsa blu metallizzato alla mano. È un daino incontrato di notte sulla statale, il terrore negli occhi, indeciso sul da farsi. Lo saluto, non nascondo un sorrisetto ma lo lascio perdere, la mia testa non intende dargli spazio. Lui, stranito dalla grazia concessa, balbetta qualcosa, per sua fortuna non ha incontrato il Patriottico del sesto piano.
Non riuscirei a dare un giudizio, del resto. Sono abbastanza d’accordo con la signora Piera, non ci restano che le braccia conserte sul parapetto del balcone, in ascolto. Ero andato in cantina, dopo aver controllato i social dove tutti sanno tutto e mi stava venendo da vomitare perché avevo appena finito di ragionare su quel nastro biancorosso. Il pensionato single del quinto piano, il ciclista, sbaglia. Siamo d’accordo, lo sa anche lui, ma non riesco a rimproverarlo, non penso ne otterrei un godimento. Il nastro biancorosso rimarrebbe lì, così come l’emergenza. Immagino sia parecchio irrazionale fissarsi su questo ulteriore elemento antropico del mio quartiere ma tant’è. Dopo aver deciso di conservare delle dediche ricevute dai miei compagni di classe alla fine della scuola media (su prescrizione dell’insegnante di religione), messaggi che oscillano fra il TVB e il Sei un secchione di merda, mi libero di certo ciarpame che non ho idea di come possa essere finito lì e risalgo, pronto per ubbidire ciecamente al mio virtual coach che mi parla dall’app che ho scaricato tempo fa sul cellulare. Mentre faccio gli esercizi e attendo i jumping jacks che mi daranno il colpo di grazia, ascolto l’audiolibro di un giallo svedese. Perché sto ascoltando l’audiolibro di un giallo svedese mentre saltello sul posto? Come mai provo un senso di colpa se sento di perdere tempo? Perché anche in questa occasione di sfogo, mi sento costretto ad accontentare il mio super-Io? Devo controllare su Google Maps dove si trova precisamente Uppsala, ancora venti secondi di plank, secondo me quel serial killer è ancora a piede libero, Santamaria legge proprio con la giusta enfasi, non dev’essere facile, “Great! Hai completato il training previsto per oggi”. Vado in bagno, mi lavo, mi sistemo, torno sul balcone; qualche ragazzino suona goffamente per l’ennesima volta il Per Elisa da un flauto dolce, continua a sbagliare il tempo, sento che si arrabbia perché ci riprova, lo suona peggio di prima e si blocca di colpo. Il silenzio non arriva, da lontano giunge il rumore dei carrelli armati del supermercato vicino a casa. Mi infastidisco e rientro, vado in cucina e fisso le scorte alimentari nel frigorifero. L’insalata è finita di nuovo. Richiudo lo sportello.
C’è una cosa che però ho imparato ad apprezzare, anche ora che c’è il nastro biancorosso. Quando tutto si spegne, di notte. Esco allora sul balcone in pigiama e guardo questo piccolo giardino illuminato dai lampioni. Lo descrivo, perché di notte mi accorgo di osservarlo con più attenzione, anche se vedo meno particolari. Di notte, infatti, non vedo alla mia destra le montagne. Amo Torino per questa sua caratteristica, protegge e culla lo sguardo: le montagne da un balcone, con alcuni profili facilmente riconoscibili, la collina dall’altro, con la vetta di Superga. Ebbene, di notte, dal balcone di camera mia le montagne non si vedono più. Sento però tanti suoni. Non so se la signora Piera l’ha mai notato ma di notte svolazza intorno al giardinetto un pipistrello. Non avevo mai sentito il suono che fa e ogni volta mi colpisce molto: si ripresenta ogni sera davanti al mio balcone e passeggia oltre e sopra il nastro. Lo trovo molto simbolico.

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