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Boyhood – La vita in una capsula del tempo

Quando entriamo in un cinema, accettiamo determinate premesse: il cinema è verosimiglianza, ciò significa che non tutto deve apparire reale e logico. Boyhood, di Richard Linklater, è il film che fa cadere queste premesse.

L’unicità della pellicola emerge già durante la fase di produzione: 40 giorni di riprese distribuiti in 12 anni (dal 2002 al 2013). Il risultato? In 165 minuti viviamo la crescita del protagonista Mason (Ellar Coltrane) dalle scuole elementari fino al college.

Il film è strutturato attorno ad una sceneggiatura malleabile, in continuo mutamento (lo stile di regia ricorda un po’ quello di Terrence Malick), ed è proprio questo il suo fattore vincente.

Grazie all’assenza di una trama precostruita, Boyhood si muove con disinvoltura tra i generi, toccando il college movie, il dramma famigliare e persino la più recente storia americana. Quasi senza accorgercene, sullo sfondo percepiamo la guerra in Iraq, l’elezione di Barack Obama ed altri eventi geopolitici, visti con gli occhi di Mason e filtrati dall’ideologia democratica e tendenzialmente hipster del padre (Ethan Hawke).

Di minuto in minuto, Linklater ci fa viaggiare attraverso una narrazione lineare, fatta di istantanee della vita dei protagonisti, avvalendosi di inquadrature semplici, lontane da qualsiasi virtuosismo, proprio per sottolineare la spontaneità come migliore chiave di lettura del film. Non siamo in un kolossal di Christopher Nolan: non ci sono personaggi portatori di ideali assoluti né tantomeno custodi di abilità speciali; è un universo perfettamente coincidente con il nostro, dove la psicologia dei protagonisti non è altro che la risultante dei loro momenti privati.

“What’s the point? I sure as shit don’t know” è la frase pronunciata dal padre di Mason, che in un momento di difficoltà cerca invano di consolare il figlio; in più occasioni il regista cerca di farci sentire a casa, vuole convincerci che quella è una famiglia qualsiasi, che un Ethan Hawke può essere nostro padre mentre prova ad aiutarci in situazioni che neanche lui riesce a comprendere. L’assenza di sensazionalismi e di luoghi comuni consente la perfetta immedesimazione: i genitori non sono solidi pilastri ma fragili pedine, i loro figli sviluppano legami affettivi instabili e intraprendono scelte insicure, casuali e a tratti immotivate (come accade nella vita reale).

In fase di montaggio si è scelto di non tagliare i “punti morti” del racconto, poiché la credibilità di questo film è intrinseca alla sua naturalezza; aspettatevi pertanto sequenze coinvolgenti dal punto di vista emotivo, che a volte terminano in vicoli ciechi.

Boyhood risulta dunque un esperimento perfettamente riuscito, una chimera nata dal mockumentary (documentario fittizio) e dal dramma introspettivo. C’è chi lo annovera tra i migliori film del decennio, chi invece critica l’assenza di una trama solida; l’unica cosa certa è che si tratta di un film sui generis, una perla inestimabile che testimonia quanto il cinema possa a volte oltrepassare la soglia della finzione e diventare sinonimo di vita.

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