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Political Moonlight

Viviamo tempi in cui molti sostengono che certi tabù non abbiano più senso di esistere; tempi dove certe etichettature sono giustamente messe al bando. Parole come “frocio” e “negro” sono per fortuna sempre più desuete, tanto da spingere i legislatori dei Paesi occidentali a produrre norme atte alla comminazione di sanzioni penali che vogliono rendere oggettivo il disvalore di certi comportamenti denigratori. Rimane però a volte solo paventato questo improvviso progresso, poiché, nonostante ottusità ed ignoranza – forse – siano sempre meno manifeste pubblicamente, nei fatti, nelle strutture sociali, nella produzione di arte, rimane comunque poco appropriato rappresentare storie particolari, magari di un ragazzo che vive in un quartiere difficile, e che, malauguratamente, ha gusti sessuali “diversi”.

In sostanza, il cinema è la rappresentazione su pellicola degli interessi di specifiche moltitudini, ed è l’Academy a rappresentare il bacino d’utenza più grande, in questo senso, definendo i canoni di ciò che alla maggior parte delle persone piace (o “deve piacere”, ma non scadiamo nel “complottismo”). Quando all’ultima cerimonia degli Oscar Moonlight, di Barry Jenkins, viene premiato come miglior film, è come se improvvisamente si fosse riaccesa una luce, seppur fioca, di speranza: una pellicola virtuosa, una rappresentazione di umanità, senza particolari demagogie, senza paura di raffigurare rapporti omosessuali, di ragazzi persi, neri, del ghetto.

Di storie sull’omosessualità e sulla difficoltà del viverla senza pregiudizi di sorta ve ne sono molte, anche se famose son ben poche (oltre I segreti di Brokeback Mountain – Ang Lee, 2005 –, meravigliosa e premiata pellicola, non me ne vengono in mente altre, al momento); ciò è frutto di quel meccanismo umano, di paura del diverso, che spinge ad identificare come nemico chi ha un colore diverso della pelle o tendenze sessuali meno diffuse.

Il coraggio di Jenkins è proverbiale, poiché, seppur con un limitatissimo budget (e sarà solo un mero caso in riferimento al tema trattato), crea un vero e proprio capolavoro, e la dimostrazione che la scelta è assolutamente impavida sta proprio nel rappresentare una sceneggiatura non originale (premiata anch’essa con un Oscar), ispirata all’opera teatrale In moonlight black boys look blue, di Tarell Alvin McCraney.

Jenkins per primo non credeva di poter ricevere tutto questo riconoscimento, come lui stesso ha sostenuto, vista anche la riluttanza iniziale delle grandi case produttrici nel fornire un budget adeguato per la sua produzione, ma questo non l’ha fermato, e forse è stato anche motivo d’ispirazione, poiché è indiscutibile che arte è ribellione e, solo dopo, riconoscimento.

Finalmente qualcosa sta effettivamente cambiando, e poco conta se meccanismi e forze remino contro, perché l’evolversi in qualcosa di meno ottuso e pericoloso è un’esigenza incontenibile, anche quando, per fare un esempio, vi sono ancora uomini di legge e di politica che si ostinano a negare quei diritti fondamentali, nonostante la legge ne abbia sancito l’inalienabilità. Questo film è qualcosa di bello, e questi artisti vanno sempre di più sorretti e premiati, così che certe tragedie, come il sentirsi solo, giudicato e denigrato, siano sempre meno frequenti.

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