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#ViveOggi: 23 dicembre, Giuseppe Montalto

La vittima di cui parliamo oggi, è Giuseppe Montalto, era un agente scelto della polizia penitenziaria. Svolse servizio presso il carcere dell’Ucciardone di Palermo, nella sezione di massima sicurezza. Venne ucciso il 23 dicembre del 1995, all’età di trent’anni, perché aveva sequestrato un bigliettino (pizzino), fatto arrivare in carcere ai boss Mariano Agate, Raffaele Ganci e Giuseppe Graviano, detenuti in regime di 41 bis. Nel 1997 gli è stata assegnata la medaglia d’oro al merito civile alla memoria. Ricordare la sua storia ci permette di affrontare un tema difficile e controverso: il regime detentivo del 41 bis e l’ergastolo.

I mandanti dell’omicidio di Giuseppe Montalto, nonostante la detenzione, continuavano a mandare i loro ordini e non gli perdonarono il suo profondo rispetto per le leggi e la legalità. Fu assassinato da due killer davanti alla moglie e alla figlia di dieci mesi, entrambe in auto con lui al momento dell’omicidio. Il delitto fu considerato un avvertimento dei vertici della mafia per migliorare il trattamento dei mafiosi nelle carceri.

Come è noto, il carcere è, soprattutto in Italia, un luogo di affiliazione, di subordinazione, e i boss non hanno mai accettato il regime di isolamento perché limita seriamente la loro possibilità di interagire con ciò che accade all’esterno. L’alleggerimento del regime 41 bis è infatti al centro della trattativa Stato-mafia.

Il regime di massima sicurezza è stato voluto fortemente dai giudici Falcone e Borsellino e venne attuato a seguito delle stragi degli anni ’90, perché quei drammatici eventi avevano messo in luce l’incapacità della pena ordinaria detentiva di colpire il potere dei detenuti affiliati alle organizzazioni mafiose che continuavano dal carcere a impartire ordini. Il 41 bis si fonda infatti sulla necessità di ostacolare le comunicazioni dei detenuti con l’esterno: vengono posti in isolamento dagli altri detenuti, situati in una cella singola senza accesso agli spazi comuni e costantemente sorvegliati da un corpo speciale di polizia penitenziaria.

Dispongono dell’ora d’aria, che viene concessa in maniera limitata, in gruppi di massimo 4 persone, e avviene sempre in isolamento. I colloqui si svolgono in un’area speciale, dotata di vetri divisori, allo scopo di impedire il contatto fisico con i familiari, vengono registrati e sono ridotti: massimo uno al mese. Inoltre i detenuti hanno la possibilità di compiere una sola telefonata al mese della durata di dieci minuti, anch’essa registrata. E molte altre sono le limitazioni imposte dal 41 bis.

Per questi motivi il regime del carcere duro è stato più volte criticato da organizzazioni internazionali come Amnesty International, Nessuno tocchi Caino, Associazione Antigone, per via dell’estrema afflittività della pena. Ci si interroga infatti sui limiti entro i quali possano essere compressi i diritti fondamentali della persona, la cui tutela costituisce un obbligo dello Stato, sia del carcerato, sia delle persone in libertà, siano esse una guardia carceraria o cittadini comuni.

È importante ricordare che lo scopo del carcere non è soltanto quello di punire il carcerato ma anche quello rieducativo. E questo è un principio assodato da più di 250 anni, Cesare Beccaria nel 1764 ne Dei delitti e delle pene scrisse: “Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. E il più sicuro ma più difficile mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione.” Ed è stato ripreso dalla Costituzione all’art. 27 “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

La pena, non deve essere applicata in un’ottica giustizialista, ma preventiva e rieducativa, per questo insieme al 41 bis si discute anche della legittimità di una reclusione a vita come l’ergastolo. Come può un detenuto, condannato a vita nel carcere, reinserirsi nel tessuto sociale? È una domanda a cui è difficile rispondere, anche perché la situazione delle carceri italiane non è delle migliori: sbarre e celle costringono i detenuti i spazi angusti e disumani. I dati parlano chiaro: più del 60% dei detenuti torna a delinquere. (fonte:http://www.infodata.ilsole24ore.com/2018/02/06/nel-68-dei-casi-detenuti-nei-carceri-tornanodelinquere/ ). Esiste un problema serio sui sistemi rieducativi delle carceri italiane. Scopo delle Istituzioni è quello di preoccuparsi dei detenuti al fine di reinserirli nella società, anche e sopratutto per il proprio interesse, che non è quello di punire ma di avere una società funzionale.

Un esempio è B.R., detenuto nel carcere di Badu ‘e Carros di Nuoro da oltre 30 anni, di cui alcuni passati in regime di 41 bis. La sua testimonianza è stata resa nella notte del 25 aprile 2017 durante un pellegrinaggio da Sinnai a Bonaria al cospetto di alcune migliaia di persone, ed è stata pubblicata nella rivista “Il Segno”.

“Sono stato condannato all’ergastolo e dopo circa 8-9 anni di carcere ho conosciuto la solitudine, la sofferenza, la desolazione più assoluta. Anni fa pensavo che ammettendo giudizialmente le mie responsabilità ed accettando la pena comminatami, ero a posto con la mia coscienza. Insomma, credevo che il rimorso, i sensi di colpa non si potessero mai presentare alla mia porta. Non è stato così, perché non avevo ancora compreso quell’immenso dolore che avevo arrecato a tante persone. La mia vita è cambiata, ho rinnegato l’associazione ‘ndranghetistica di cui un tempo facevo parte; ho troncato qualsiasi rapporto con persone che conoscevo in passato, con i miei stessi parenti, tanto che non andrò più nemmeno nella mia città natia, ossia Reggio Calabria. La nuova persona che oggi rivedo allo specchio ogni volta che mi guardo spero che possa essere solo una risorsa per la società tutta, perché voglio dedicarmi solo a fare del bene per riscattarmi dal mio nefasto passato.”

Ma lo scopo del carcere e del 41 bis è anche quello e sopratutto di tutelare il resto della cittadinanza dalle attività mafiose. Per questo è necessario un ripensamento delle carceri, che vada tanto a favore della riabilitazione di chi ci è dentro, (a cominciare dai boss) tanto alla sicurezza di chi ci lavora affinché non si debbano piangere più i vari “Giuseppe Montalto”. Con le parole di De Andrè: “Ora che è morto la patria si gloria d’un altro eroe alla memoria. Ma lei che lo amava aspettava il ritorno d’un soldato vivo, d’un eroe morto che ne farà, se accanto nel letto le è rimasta la gloria d’una medaglia alla memoria.”

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