Attualità

Noi, l’apocalisse e l’odissea

di Simone Lo Giudice

 

Prima l’Apocalisse giapponese e poi l’Odissea libica. Due sconvolgimenti mondiali che rischiano di scompaginare il palinsesto della nostra esistenza. Gli attori si avvicendano, le trame differiscono, ma il palcoscenico resta il mondo globalizzato. Il problema è che la 150enaria Italia si lascia spesso travolgere dagli eventi. La carta d’identità la dichiara esperta, ma la prontezza di riflessi non le appartiene. E intuiamo la portata del cataclisma di turno puntualmente in differita. Ma andiamo con ordine.
Lo scorso 11 marzo si è registrato il più potente sisma della storia nipponica. La natura ha fatto la voce grossa con l’Uomo Nucleare del Sol Levante: prima il terremoto di magnitudo 8,9 nelle profondità dell’Oceano Pacifico e poi lo tsunami con onde alte fino a 10 metri. La marea ha scaldato i motori a dovere prima di investire l’inerme città di Sendai. Scene di ordinaria follia. Ma poi di mezzo ci va la centrale elettronucleare di Fukushima Daiichi, in balia del destino dopo essere stata danneggiata dalla furia oceanica. Il governo nipponico cerca subito di insabbiare le scomode verità legate all’incidente, ma in molti ne intravedono le sembianze di una nuova Chernobyl. E sebbene l’emergenza sia stata subito fronteggiata dagli ingegneri giapponesi, il livello delle radiazioni nell’atmosfera è ben presto salito. Insomma: sviluppi positivi, ma situazione che rimane grave (piazzabile al posto 5 della scala INES sui 7 totali per ordine di pericolosità). E improvvisamente si accende la lampadina del geniaccio italiano: il nostro governo raddrizza il tiro sul ritorno del nucleare in Italia, invocando una doverosa pausa di riflessione. Io non baratterei mai una vita da importatore petrolifero con il rischio di dover curare il dolore di infinite generazioni malformate. E basterebbe fare due passi nella vecchia Chernobyl per convincersene.
Lo scorso 19 marzo è scattata l’operazione “Odissea all’alba” a opera della coalizione occidentale di fronte alla temerarietà del dittatorissimo Gheddafi: Stati Uniti in primis, Francia e Inghilterra in secundis, Italia in tertiis (e sarà una coincidenza?). La Libia si è scoperta dimezzata nell’ovest gheddaffiano e nell’est rivoltoso. Peccato che agli ideali pseudo-pacifisti dell’uomo occidentale si mescoli una smisurata voglia di petrolio (e il paese del Raìs ne dispensa a macchie). Il guascone Sarkozy ha preso tra le mani il timone delle operazioni, vincendo le inerzie europee per dare inizio alle danze belliche. E l’Italietta smemorata è scivolata nel bel mezzo del conflitto mediterraneo con qualche fardello di troppo sulle spalle: il “trattato di amicizia” italo-libico (stipulato il 30 agosto 2008) cestinato all’istante, la Libia in bella vista (e in Sicilia ne sanno qualcosa), le sette basi aeree da mettere a disposizione della coalizione (la più vicina alla Libia è quella di Pantelleria), il rischio di ritorsioni terroristiche da parte dello stesso Raìs.
E così l’elmetto è ritornato di moda nel nostro abbigliamento quotidiano. Il dio petrolio ci affascina a tal punto da far finta di niente davanti all’Apocalisse e all’Odissea: il ritorno del nucleare ci permetterebbe di importarne di meno e le conquiste libiche ce ne garantirebbero un po’ di più. Ma i nostri passi si sono rivelati attardati e lenti. Come sempre. Siamo poco lungimiranti e tanto pasticcioni. Un passo indietro sul nucleare e un passo in avanti nel conflitto, ma in entrambi i casi sono stati gli eventi a munirci di stampelle. Perché non sappiamo camminare da soli con la forza delle nostre idee. Che sono deboli.

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