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Lo sport contro la guerra: il 6 aprile, l’ONU e il CIO

Il 6 aprile ricorre la Giornata Internazionale dello Sport per lo Sviluppo e la Pace, una data speciale sancita dall’ONU in collaborazione con il CIO. L’obiettivo è sottolineare il ruolo di strenua opposizione alla guerra che lo sport può rivestire come mezzo di unificazione di popoli e culture differenti, per enfatizzare il valore della pace e dei diritti umani di tutte le persone che vivono nel mondo.

Non è un caso che questa ricorrenza cada proprio il 6 aprile, in quanto in questo giorno nel 1896 presero avvio le prime Olimpiadi dell’era moderna ad Atene, su iniziativa del barone De Coubertin. Fin dall’antichità i Giochi sono collegati a importanti ideali di pace e fratellanza e infatti le edizioni del 1914, 1940 e 1944 non vennero disputate.

Nonostante la potenza dello sport come strumento di integrazione sociale e culturale, tuttavia, non sono mancati casi in cui esso si è dovuto incrociare con le dinamiche della guerra. Sembra dunque opportuno in questa giornata e momento storico ricordare due vicende, una del passato e una del presente, per apprezzare in modo ancora più significativo i periodi in cui invece sport e pace sono coesistiti armoniosamente.

Quando lo sport si intrecciò alla Guerra Fredda

Se si parla della relazione fra sport e Guerra Fredda, il primo aspetto che bisogna considerare è sicuramente quello dei boicottaggi: evitare di partecipare a una manifestazione sportiva importante è infatti ancora oggi un segnale politico molto forte verso il Paese ospitante. I casi più famosi sono sicuramente i boicottaggi degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica rispettivamente alle Olimpiadi di Mosca 1980 e di Los Angeles 1984. Spesso, tuttavia, sfugge che non furono solamente questi due Stati a rinunciare alle gare, bensì buona parte di tutti quelli che facevano parte dei due blocchi.

Per quanto riguarda i giochi in Russia ricordiamo ad esempio l’abbandono della Germania Ovest, del Canada e dell’Argentina. Parecchi altri – tra cui l’Italia – decisero invece di competere sotto la bandiera olimpica invece che con la propria. D’altra parte nel 1984 tutti i Paesi dell’Europa dell’Est aderirono al boicottaggio e anche alcune nazioni extra continentali, come Cuba e il Vietnam. Solo la Romania scelse di partecipare ugualmente.

Dalla questione dei boicottaggi comprendiamo quanti atleti rinunciarono a realizzare i propri sogni per l’incrocio tra la loro vita sportiva e la politica. Di fronte a questo, però, alcuni di loro scelsero la difficile strada della ribellione, ad esempio mediante gesti simbolici di grande impatto sull’opinione pubblica. Tra gli altri citiamo Vera Čáslavská, una ginnasta della Cecoslovacchia morta nel 2016, della quale in genere si ricorda il fatto che riuscì a vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi in ognuna delle specialità individuali (concorso generale, volteggio, parallele, trave e corpo libero).

Lei, tuttavia, fu anche protagonista di un’attività di aperto osteggiamento all’Unione Sovietica, specialmente nel periodo immediatamente successivo agli eventi della Primavera di Praga. Alle Olimpiadi di Città del Messico 1968 arrivò seconda assieme alla sua squadra, mentre al primo posto si classificò l’URS. Durante l’inno nazionale, invece di ascoltare, chiuse gli occhi e abbassò la testa in segno di protesta. Più volte criticò le politiche dell’Unione Sovietica in Cecoslovacchia e il trattamento nei confronti di Dubcek, motivo per cui nel 1971 venne cacciata dalla sua società di appartenenza.

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Vera Čáslavská nel 1965 Crediti: Alefo

Nell’ambito della Guerra Fredda lo sport ebbe però un ruolo rilevante anche come mezzo di disgelo e riavvicinamento fra due Stati: ai Campionati del mondo di ping-pong del 1971 un giocatore americano, Glenn Cowan, e Zhuang Zedong, cinese già vincitore del titolo in tre edizioni, si scambiarono dei doni in segno di amicizia e solidarietà sportiva. Cowan regalò a Zedong una maglietta dai temi pacifisti e l’altro un dipinto in seta dei Monti Huangshan.

Anche grazie a questo scambio i rapporti fra gli Stati Uniti e la Cina, che si erano bloccati nel 1949, ripresero. La nazionale cinese invitò la squadra americana di ping-pong a trascorrere un periodo di ritiro assieme a loro. Furono i primi americani a visitare lo Stato asiatico dallo stesso 1949. Un anno dopo fu il presidente Nixon a recarsi in Cina, riprendendo ormai in modo più definitivo le attività diplomatiche con il Paese. Ancora oggi a riguardo si parla di “diplomazia del ping-pong”.

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Zhuang Zedong e Glenn Cowen Crediti: Getty Images

2015: nasce la Squadra Olimpica dei Rifugiati

Il 2015 vide l’annuncio della nascita della Squadra Olimpica dei Rifugiati, formata da atleti meritevoli di partecipare ai Giochi Olimpici per i risultati conseguiti nella propria disciplina, ma fuggiti dai loro Paesi d’origine, a causa di guerre, crisi o persecuzioni. Pur avendo ricevuto accoglienza da nuovi Stati, non tutti i rifugiati hanno infatti la possibilità di gareggiare sotto la bandiera degli stessi. Il CIO, insieme all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha dunque fondato questa squadra, che aderisce alle competizioni utilizzando la bandiera olimpica.

La prima partecipazione degli sportivi rifugiati si è registrata nel 2016 a Rio de Janeiro, per un totale di dieci membri. Tra di loro ricordiamo ad esempio Yusra Mardini, nuotatrice siriana scappata in Germania nel 2015. Con lo scoppio della guerra, infatti, lei e la sorella Sarah – all’epoca rispettivamente di 17 e 19 anni – sono partite dalla Siria attraversando diversi Paesi. Dalla Turchia, assieme ad altri venti profughi, sono salite su un gommone progettato al massimo per nove persone, in direzione dell’isola di Lesbo.

A causa di una tempesta, però, il mezzo ha cominciato a imbarcare acqua. Le due sorelle allora si sono gettate in acqua e hanno nuotato per tre ore e trenta minuti, dandosi il cambio con due uomini. Così sono riuscite a mantenere a galla il gommone fino all’approdo sulla costa greca. Da lì hanno poi percorso altri quattro Paesi, viaggiando a piedi o in treno, prima di giungere n Germania.

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Yusra Mardini Crediti: Xinhua

La storia di Yusra è emblematica di quanto devono aver affrontato anche gli altri atleti della Squadra Olimpica dei Rifugiati; all’edizione successiva delle Olimpiadi, cioè quella di Tokyo 2021, il team si è allargato fino a comprendere 29 persone, da 11 Paesi d’origine differenti. Come ha sottolineato il presidente del CIO Thomas Bach, la creazione di una squadra dei rifugiati ha un valore sportivo e umano enorme: da un lato, infatti, trasmette agli altri profughi un importante messaggio di speranza, per uscire dalla propria condizione e ottenere successi, dopo aver superato terribili tragedie. Dall’altro è per tutti noi una testimonianza fondamentale del fatto che nel mondo si continuano a verificare crisi orribili, che non devono cadere nel silenzio. Ad oggi, infatti, si contano più di 80 milioni di rifugiati, ma teniamo presente che tale cifra è destinata ad aumentare a causa del conflitto in Ucraina.

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La Squadra Olimpica dei Rifugiati a Rio 2016 Crediti: Getty Images via Pinterest

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