Attualità

De republica. Lo stato della democrazia

 

di Giovanni Cervi Ciboldi

L’ineludibile novità politica di questi giorni sta nel fatto che ci sia maggiore fiducia in un esecutivo non eletto che in uno scelto dai cittadini. Un paradosso, una anomalia, una forzatura che dimostra quanto la declinazione italiana del concetto di rappresentanza possa rivelarsi inadeguata in momenti in cui il mondo esige risposte in in tempi più brevi di quanto la democrazia non possa assicurarne.

Persone capaci, persone competenti. Ma questa competenza non è votata dai cittadini, nonostante il governo non possa ovviamente compiere scelte se non con l’appoggio della gran parte del parlamento. Non c’è allora alcuna sospensione dei principi democratici: anzi, in un momento in cui la maggioranza parlamentare non è nemmeno identificabile con sicurezza, nel processo di rinnovo potranno scegliere di essere coinvolte le rappresentanze parlamentari della quasi totalità dei cittadini, prima escluse dalla maggioranza e dalla discussione politica più in vista. Essa però nasce in una situazione in cui il normale corso democratico non è stato in grado di rispondere alle necessità della nazione. È stato necessario ricorrere a strategie che, seppur ammesse dalla costituzione, sono da considerarsi straordinarie. L’incapacità e l’inettitudine appaiono, ad un primo sguardo superficiale, le concause di questo fallimento. Andando più a fondo però, è necessario chiedersi come mai si sia giunti a questo punto di stallo, come mai è stato possibile arrivare a un punto in cui il sistema non è più stato in grado di creare da sè le condizioni stesse per il suo corso ordinario.

Ci si può rispondere, con un certo masochismo, che si tratta di una anomalia tutta italiana. Eppure nessuno dei meccanismi democratici occidentali è stato in grado di mantenere il timone dritto davanti alle trasformazioni contemporanee.

Dalla sua nascita, la democrazia ha saputo adattatarsi agli enormi cambiamenti della società, a loro volta provenienti dal progresso culturale, economico e tecnologico. La salvaguardia dei rapporti di forza tra individui è stata assicurata da garanzie che hanno permesso, per lungo tempo, una mobilità sociale che ha assicurato alla gran parte della popolazione possibilità di vita migliori. È per questo che abbiamo scelto le forme di governo democratiche.

Nel tempo, però, la democratizzazione ha portato alla sempre più frequente nascita di minoranze che, sottratte agli schemi mobili eppure costanti della sovranità popolare, reclamano il diritto di osservarle non più come ceti o classi, ma nella loro individualità, al netto delle pulsioni unitarie che non hanno impedito alla società di rendere la propria stratificazione sempre più complessa, troppo difficile da ricondurre alla consapevolezza se non filtrata attraverso la lente dell’ideologia, una lente che semplifica, ma che anche distorce.

In secondo luogo la situazione nella quale il parlamentarismo si trova è molto cambiata rispetto alle condizioni in cui esso si era diffuso. La classe politica è divenuta statica ed esclusiva, chiusa in se stessa. In Italia questo si è verificato anche – ma non solo – con la decisione di sottrarre al voto popolare la scelta dei candidati, situazione nella quale è un membro dell’elite a scegliere chi di quella elite deve fare parte. E non per assicurare alle materie di competenza parlamentare un numero adeguato di specialisti. In tal modo, è divenuta solo un’altra minoranza all’interno del complesso sociale: da supervisore della molteplicità degli agenti sociali è divenuta lei stessa uno degli agenti. Da burattinaia a burattino, da regista ad attore. Questa fissità politica ha reso i partiti delle elite che, anziché sorgere dal popolo, scendono su esso a cercare consensi quando giunge il tempo delle campagne elettorali.

Sono inoltre venuti a galla molti dei limiti intrinseci nella forma di governo democratica. Il sale della democrazia è il dibattito tra diverse concezioni rispetto a ciò che è necessario per il progresso della società. Dato per assunto che l’uguaglianza formale non si traduce in uguaglianza sociale, il panorama interno, in quanto influenzato ulteriormente da fattori internazionali, è divenuto molto più complesso e delicato. A questa complessità non è corrisposta una mutazione nella selezione delle personalità che sono chiamate a farvi fronte.

Per finire, essendo più complesso il mondo, anche il ruolo del cittadino votante è divenuto molto più complesso. La difficoltà di orientarsi all’interno di questa mutazione richiederebbero enormi competenze per poter esprimere un voto pienamente consapevole. Così il ricorso all’ideologia diventa necessità naturale, forte di saper mantenere quel pugno di valori tradizionali che nel tempo rischiano però di venire sorpassati dalle esigenze di una nuova società, configurandosi come facce di un conservatorismo che potrebbe non essere più in grado di dare risposte.

Pensare però che alla globalizzazione dei mercati debba corrispondere una globalizzazione della politica implicherebbe il superamento della democrazia stessa in quanto non sarebbe possibile, almeno allo stato attuale, garantire una rappresentanza che garantisca il rispetto di ogni minoranza. Senza contare che sempre più spesso gli stati nazionali occidentali entrano in contatto con forme di governo molto distanti da quelle che conosciamo.

Eppure qualcosa del genere già accade. La crescita dei rapporti politico-economici internazionali ha creato una rete di legami che hanno condizionato anche i paesi al loro interno. Allo stesso modo le decisioni di politica interna, influendo su un paese membro di una organizzazione più grande, si riverberano su di essa. Si è così creata una situazione in cui dalla sussistenza di uno stato dipende oramai la sussistenza di altri stati, una sorta di dipendenza. E’ un processo ineluttabile, l’estinzione del concetto di sovranità nazionale, che non si verifica solo in quei paesi che hanno rinunciato ad una parte della propria libertà a favore di progetti continentali (come l’UE). Ed è per questo che, davanti all’inefficienza di un governo eletto per via democratica, è possibile che i “mercati” – cioè investitori internazionali – ne sanciscano anticipatamente il fallimento e ne impongano la sostituzione prima di quanto non siano in grado di fare i cittadini della nazione.

Appare allora chiaro, una volta coscienti di tutti questi elementi, che la democrazia è intrappolata tra una pulsione locale e una globalizzante. Entrambe richiedono risposte. I meccanismi democratici classici sono plasmati per governare la frammentarietà degli stati al loro interno, e non per rispondere a necessità ultranazionali, per le quali fino a pochi anni fa erano sufficienti istituzioni all’interno dello stato stesso.

La domanda alla quale si deve rispondere è allora: la crisi della forma stato comporta il venir meno della democrazia? Certo è che la democrazia verrà superata, come sempre è accaduto nella storia dei popoli a qualsiasi sistema politico. Tutto questo appare però completamente contrastante con il conservatorismo e l’affezione con i quali l’abbiamo sempre trattata. Non possiamo sapere i tempi e i modi, e nemmeno cosa verrà dopo. E nemmeno conosciamo dottori che sappiano curarla. Possiamo solo essere certi che non saranno questi gli anni del cambio: avrà tempo per mostrare se sarà in grado di adattarsi ancora una volta all’ambiente che la circonda.

Dei nostri desideri per ciò che sarà, sappiamo solo che, qualunque sia il prezzo a noi offerto, mai baratteremmo la libertà che abbiamo imparato ad amare. E questo è già molto.

2 pensieri riguardo “De republica. Lo stato della democrazia

  • pacciani era un bravuomo

    finalmente un altro articolo di cui non c’era bisogno!

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  • Catullo

    Ista cum lingua, si usus veniat tibi, possis culos et crepidas lingere carpatinas

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